Pur non avendo fatto breccia nei gusti del pubblico,
Pénéloperappresenta non solo uno dei vertici artistici di Fauré, ma anche una delle creazioni più intense e significative del Novecento francese. Già attraverso la denominazione di ‘poema lirico’ adottata dal compositore si intuisce la radice stilistica che informa l’opera: un lavoro la cui trama è vicenda da tutti risaputa, e che scorre sul tempo interiore lentissimo di un’attesa ormai decennale, ponendo l’accento su sfumature psicologiche, su confessioni sfumate dal riserbo, su emozioni sottaciute, di cui solo la musica può esplorare la profondità. In sintonia con la dolce fermezza della protagonista,
Pénélope«disdegna il grande effetto», secondo uno dei moniti artistici dell’autore; l’armonia riesce a essere audace e personalissima senza avvalersi di soluzioni provocatorie, la vocalità trasferisce in seno al teatro ciò che il sublime artigianato delle
mélodiesera riuscito a forgiare; il risultato è un lavoro da sviscerare in profondità, là dove si celano i suoi tesori nascosti.
Atto primo. Nella reggia di Itaca, Pénélope tenta di resistere all’insolenza dei pretendenti, insediatisi da padroni nella sua dimora, disfacendo durante la notte il sudario che tesse di giorno per Laerte, terminato il quale ha dovuto promettere di scegliere uno sposo fra loro. Si presenta uno sconosciuto a chiedere ospitalità, e Pénélope lo accoglie con rispetto; lavando l’ospite, la nutrice Euryclée riconosce una cicatrice caratteristica di Ulysse, che però le impone di tacere finché la sua vendetta non sia compiuta. Scoperta dai Proci a disfare la tela di Laerte, Pénélope viene obbligata a rompere gli indugi, scegliendo l’indomani stesso il nuovo consorte.
Atto secondo. Sulla riva del mare, la donna guarda sconsolata la distesa delle acque e si confida allo straniero, che le rivela di aver ospitato un tempo Ulysse a Creta. Pénélope attende da dieci anni di veder ritornare la nave dello sposo, ma rivela tutta l’angoscia del suo intimo esprimendo il dubbio che Ulysse l’abbia dimenticata; lo sconosciuto replica dicendo che chi abbia gustato il sapore di labbra così belle non può consolarsi con altre: commossa, Pénélope ascolta la sua voce e si allontana rapidamente, per non confessargli di aver creduto di riascoltare il timbro ardente di Ulysse. Rimasto solo, Ulysse si fa riconoscere dai suoi fedeli pastori, chiedendo loro di aiutarlo l’indomani a lavare l’onta che macchia la sua dimora.
Atto terzo. I Proci già pregustano il prossimo trionfo, ma restano sgomenti quando la regina annuncia loro che accetterà in sposo solo chi sarà in grado di tendere l’arco di Ulysse. Nessuno riesce a tanto, finché l’anziano e sbeffeggiato straniero si fa avanti chiedendo di misurarsi nella prova: la freccia, scoccata con facilità, avvia la strage dei pretendenti, che vengono massacrati nella sala attigua da Ulysse e dai pastori; l’opera si chiude con il canto d’amore dei due sposi ricongiunti.
Scritta per Lucienne Bréval, che era stata anche la prima ispiratrice del soggetto, la parte di Pénélope svetta nel panorama vocale di inizio secolo per la nobile fierezza degli accenti e per la forza espressiva che ne irradia. Senza conoscere le trafitture aspre dell’espressionismo, ma nemmeno riposando sull’eredità melodrammatica di fine secolo, la voce si inarca con una tragicità che non pecca mai di languori patetici, restituendo in suoni la fisionomia interiore dolce e risoluta della protagonista. Quando, nel secondo atto, la presenza oscuramente amata dello sconosciuto la induce a confidare le ansie che segretamente la torturano, l’orchestra si ritrae quasi nell’ombra, lasciando alla dolorosa nudità del canto il peso della confessione. Solo nel primo atto il rimpianto bruciante di Pénélope esplode in un ampio sfogo drammatico (“Ulysse! Fier époux!”), culmine naturale della tensione accumulata nello scontro con i Proci. A costoro Fauré riserva la sfrontatezza di ritmi arrembanti, che cancellano di prepotenza le idee tematiche più sommesse e discrete legate alla protagonista; ne dà prova anche il terzo atto, con la pulsione ostinata e inflessibile che caratterizza le pagine d’apertura; di lì a poco, però, la tronfia spavalderia degli ottoni si convertirà in rintocco funebre. I momenti di danza sono enucleati perfettamente nel contesto; gli arabeschi del primo atto, lungi dal rompere l’atmosfera creatasi, anticipano lo sfogo di Pénélope; e le danze del terzo atto, con le loro sinuosità alla Rimskij-Korsakov, compendiano la frenesia cupida dei pretendenti e l’anelito sofferto dei due sposi. Fin dall’ouverture aleggia il tema di Ulysse, non estraneo, soprattutto nel fremito guerresco delle terzine ascendenti, ai motivi di Siegfried, ma innestato sull’eleganza sonora peculiare a Fauré. Splendida anche la mimesi con cui, nel terzo atto, viene rappresentato il cimento fallito dei Proci, con la brusca e sfibrata discesa dei violini dall’acuto al grave; e, allo scoccare prodigioso della freccia vittoriosa e omicida di Ulysse, i fiati si librano saettando verso le tessiture più alte. Lapietasdi Pénélope detta frequenti inflessioni religiose (Fauré si era formato all’École Niedermeyer), sotto cui si intrecciano armonie inusuali, di latente modalità: quelle armonie di cui i contemporanei dicevano che suonassero provocatorie anche se in fondo le si sarebbe potute illustrare, seppur come risoluzioni eccezionali, anche in un manuale da conservatorio. Certe concatenazioni di settime giustapposte producono una sensazione di staticità, che risulta ben appropriata alla vicenda; e la finezza del suo stile di conversazione è illustrata a perfezione dal sincopato rarefatto, quasi sospeso in ricordi senza tempo, che Fauré sottende alle parole con cui Pénélope accoglie il visitatore sconosciuto.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi