Giunto a Vienna nel 1761, Calzabigi fu spinto a collaborare con Gluck dal conte Giacomo Durazzo, ‘Direttore generale degli spettacoli’ al servizio della corte imperiale. A Vienna lavorava anche un altro italiano, il coreografo Gasparo Angiolini, il cui progetto artistico era quello di infondere nella danza la «verità espressiva»: insieme a Gluck e a Calzabigi aveva creato, nello stesso anno, il balletto pantomima
Don Juan ou Le festin de pierre. Protagonista dell’«azione teatrale»
Orfeo ed Euridice(azione teatrale nel senso di rappresentazione di circostanza, festa allestita per un’importante ricorrenza, in questo caso per il giorno onomastico dell’imperatore) fu Gaetano Guadagni, castrato contralto che aveva studiato a fondo la declamazione; era un interprete aggiornato, moderno, discepolo di David Garrick, l’attore che il coreografo Noverre indicava come esempio per la sua capacità di identificarsi nel personaggio. Il concorso di personalità simili, e la coscienza teorica espressa successivamente soprattutto da Calzabigi, hanno legittimato la definizione di ‘riforma’ del melodramma, valida per questa come per le altre collaborazioni successive del poeta con il musicista (
Alcestee
Paride ed Elena). Interessato al nodo fra poesia e musica e a tutte le componenti del dramma (in primo luogo alla coreografia e alla dimensione scenica, gestuale), Calzabigi racconta come avesse impostato il rapporto con il compositore: «gli lessi l’
Orfeoe gliene declamai in più volte parecchi frammenti, sottolineando le sfumature della mia declamazione, le sospensioni, la lentezza, la rapidità , i suoni della voce, ora pesante, ora flessibile, di cui desideravo facesse uso nella sua composizione. Lo pregai contemporaneamente di bandire i passaggi, le cadenze, i ritornelli, e tutto ciò che di gotico, di barbaro, di stravagante è stato inserito nella nostra musica. Il signor Gluck aderì ai miei punti di vista». La vicenda dell’
Orfeoè lineare e molto semplice, sviluppata in poche scene che formano quadri fra loro contrapposti; i personaggi sono solamente tre (anche nelle feste e azioni teatrali di Metastasio spesso i personaggi sono pochi).
Atto primo. L’immobilità regna all’inizio dell’opera: si svolge la cerimonia funebre di Euridice, sposa del cantore Orfeo. Questi, disteso a terra, interrompe la trenodia del coro (ispirata alla scena funebre deiTindarididi Traetta, e a quella del primo atto delCastor et Polluxdi Rameau), invocando tre volte il nome della sposa. Dopo una danza, il coro è ripetuto, chiuso dal brano strumentale ascoltato come preludio: l’attenzione alla simmetria, alla costruzione bilanciata della scena, è una delle caratteristiche del modo di comporre di Gluck, concentrato non sul singolo brano ma sulla dimensione più ampia e unitaria dell’intero quadro scenico. In questo, come nei successivi episodi, troviamo realizzata musicalmente quella «nobile semplicità e quieta grandiosità » che negli stessi anni teorizzava, nello studio dell’arte classica, Johann Johachim Winckelmann (iPensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella sculturasono del 1755). Orfeo si rivolge alla sposa defunta nell’aria successiva, “Chiamo il mio ben cosìâ€, nella quale le tre strofe (Gluck conosceva bene la forma ternaria tipica dellaromancenell’opéra-comiquefrancese) sono separate da drammatici recitativi (accompagnati dall’orchestra, come avviene in tutta l’opera). Per ogni strofa, Gluck sceglie uno strumento concertante differente: flauti, corni, e poi corni inglesi. Appare Amore e annuncia che Giove, impietosito, permetterà a Orfeo di recarsi nell’Ade per placare con il canto le divinità infernali, in modo da ottenere Euridice, alla condizione che egli non si volti a guardarla durante il ritorno sulla terra, e non le riveli il divieto. Amore esorta Orfeo a rispettare tali condizioni in un’aria disinvolta, su ritmo di danza (“Gli sguardi trattieniâ€).
Atto secondo. Alle porte dell’Ade, «al suono di orribile sinfonia, comincia il ballo delle Furie e degli Spettri, interrotto dalle armonie della lira d’Orfeo». L’orchestra si scinde in due gruppi timbrici: da una parte l’arpa e gli archi pizzicati, che accompagneranno il canto del protagonista, dall’altra l’orchestra piena, che rappresenta la musica infernale delle Furie. Il coro, su versi sdruccioli, ripete ossessivamente e omoritmicamente la stessa frase ritmica. Orfeo inizia a cantare, interrotto dalle grida isolate («No!») delle Furie. A poco a poco riesce a placarle e le porte dell’Ade gli vengono aperte. Gluck ha tradotto in musica la didascalia del libretto, con un effetto di ‘diminuendo’ che decanta la tensione armonica e ritmica precedente: «le Furie e gli Spettri cominciano a ritirarsi, e dileguandosi entro le scene, ripetono l’ultima strofa del coro; il quale, continuando sempre, frattanto che si allontanano, finisce in un confuso mormorio». Nella versione francese dell’opera, Gluck aggiunse a questo punto una danza delle Furie composta in precedenza per ilDon Juan, alla quale si era forse ispirato per il coro che apre l’atto. Il quadro successivo si svolge nei campi Elisi. Orfeo contempla la bellezza che lo circonda: “Che puro cielâ€, canta in un arioso in cui la voce declama sognante sull’orchestra, che ha funzione non di accompagnamento ma di pittura sonora in primo piano. Nell’orchestrazione gluckiana, infatti, il timbro assume spesso un valore autonomo, un’importanza sconosciuta ai compositori contemporanei. La scelta timbrica corrisponde a esigenze teatrali, poetiche: in questo brano, la melodia affidata all’oboe è accompagnata da un sussurro orchestrale di archi (terzine dei violini primi e pizzicati dei bassi), con brevi interventi alternati, a mo’ di eco, di violoncello e flauto solisti, a cui si aggiungono i trilli isolati dei violini secondi e le note tenute dal corno. In seguito, «da un coro di Eroine vien condotta Euridice vicino ad Orfeo, il quale, senza guardarla e con un atto di somma premura, la prende per mano e la conduce subito via. Séguita poi il ballo degli Eroi ed Eroine, e si ripiglia il canto del coro: supposto continuarsi sino a tanto che Orfeo ed Euridice siano affatto fuori dagli Elisi»: ormai abbiamo compreso come l’interesse per la dimensione della gestualità e per il balletto, ispirato alla severità del teatro greco, costituisca un’importante caratteristica strutturale del nuovo genere drammatico creato da Calzabigi e Gluck in antitesi alla tradizione dell’opera seria italiana.
Atto terzo. In una «oscura spelonca» infernale, Orfeo guida Euridice verso la luce. Ella comincia a porre domande sempre più incalzanti e Orfeo le risponde in modo evasivo, senza guardarla. Dopo un duetto, Euridice manifesta la sua passionalità in un’aria tripartita (“Che fiero momentoâ€), e costringe il consorte a volgersi per guardarla. Euridice muore, perduta per sempre. Dopo un recitativo disperato, Orfeo intona “Che farò senza Euridiceâ€, sublimando il proprio dolore nella melodia dell’aria strofica. Invocando la sposa, decide di togliersi la vita, ma interviene Amore: gli dèi, commossi, gli restituiranno Euridice. L’ultimo quadro celebra il lieto fine in un «magnifico tempio dedicato ad Amore», come in unvaudevilledaopéra-comique.
Quando l’Orfeofu rappresentato a Parma, nel 1769, diventò parte del tritticoLe feste d’Apollo, su testo di Carlo Innocenzo Frugoni, allestito da Gluck per celebrare le nozze del duca Ferdinando con la figlia di Maria Teresa d’Austria. Nella terza parte della festa, l’Atto d’Orfeo, il lavoro originale venne eseguito senza intervalli e con la parte del protagonista riscritta per un soprano castrato, Giuseppe Millico. Successivamente l’opera fu rappresentata a Londra (con aggiunte di Johann Christian Bach e Pietro Guglielmi), Bologna, Firenze e Napoli. Reduce dal successo parigino diIphigénie en Aulide, Gluck rielaborò la partitura per l’Académie royale de musique (l’Opéra). La nuova versione, su libretto francese di Pierre Louis Moline (sulla scorta di quello di Calzabigi), andò in scena a Parigi il 2 agosto 1774. A causa dell’allergia del pubblico francese per il timbro dei castrati, la parte del protagonista fu riscritta perhaute-contre, un tipo di voce maschile solitamente impiegata per le parti di eroe o di amante nelle opere francesi. Nella versione parigina vennero aggiunti nuovi brani vocali e strumentali: un’aria di Amore (“Si les doux accords de la lyreâ€), una di Orfeo, accesamente virtuosistica, nello stile dell’opera seria italiana (“L’espoir renaît dans mon âmeâ€, forse composta da Ferdinando Bertoni; Gluck l’aveva già inserita nell’Atto d’Aristeo, seconda parte delleFeste d’Apollodel 1769, e neIl Parnasoconfuso del 1765), la danza delle Furie tratta dal ballettoDon Juan, un’aria con coro per Euridice (“Cet asile aimable et tranquilleâ€), la struggente parte centrale (per flauto solista) della danza che apre la scena degli Elisi, un terzetto (“Tendre Amourâ€) e alcune danze dell’ultimo atto. Nell’orchestrazione furono apportate numerose modifiche; alcuni strumenti che caratterizzavano la versione viennese (ad esempio, i tre cornetti della trenodia iniziale) vennero sostituiti. Nel 1813, a Milano, la parte di Orfeo fu cantata per la prima volta da una donna; la più famosa interprete ottocentesca del ruolo fu Pauline Viardot, per la quale Berlioz imbastì la sua edizione dell’opera, in quattro atti (1859), attuando una sorta di compromesso fra la versione viennese e quella francese, sulla traccia di quest’ultima. L’opera è stata spesso rappresentata in italiano, nella seconda metà dell’Ottocento, in versioni ibride, sulla scorta dell’edizione di Berlioz, ma con brani che questi aveva omesso: ad esempio, una rielaborazione è stata pubblicata da Ricordi nel 1889. Nel Novecento hanno cantatoOrfeo, fra gli altri, Kathleen Ferrier, Rita Gorr, Ebe Stignani, Giulietta Simionato, Grace Bumbry, Marilyn Horne, Shirley Verrett, Janet Baker, Dietrich Fischer-Dieskau, Hermann Prey (questi nella versione per baritono), Léopold Simoneau e Nicolai Gedda (nella versione del 1774 per tenore). Recentemente alcuni controtenori (John Angelo Messana, René Jacobs e Derek Lee Ragin) hanno cantato la versione originale.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi