Come altri maestri del romanticismo (Schumann, Mendelssohn, Liszt), anche Hector Berlioz restò profondamente suggestionato dal
Faustdi Goethe, e nel 1829 compose le
Huit scènes de Faustop. 1 nella versione francese di Gérard de Nerval. Prima di allora, Beethoven aveva composto solo una
Canzone della pulce, Schubert si era concentrato sulla dolce figura di Margherita, e anche il giovane Berlioz non osò affrontare appieno il mito faustiano, di questo Ulisse medioevale inteso a «seguir virtute e conoscenza», e il demonismo così caro ai primi romantici quali Hoffmann e Weber; l’opera acerba e disorganica non dovette soddisfare l’autore, che infatti la ritirò, ma riprese i vecchi materiali più tardi, nel 1845, elaborandoli ne
La damnation de Faust. Berlioz la definì «leggenda drammatica», cioè un lavoro non destinato alle scene: piuttosto un oratorio profano, un’«opera da concerto», e in questa forma venne eseguita per la prima volta all’Opéra-Comique il 6 dicembre 1846; ma la sua forte carica di teatralità ha indotto nel 1893 Raoul Gunsbourg a rappresentarla come una vera e propria opera lirica, e in questa forma
La damnationha conquistato stabilmente il pubblico. Rispetto alle giovanili
Huit scènessi nota, in primo luogo, l’ampio spazio assegnato a Faust, che diviene così un personaggio a tutto tondo: un nuovo monologo
en plein airche apre l’opera (“Le viel hiver a fait place au printempsâ€), un duetto d’amore, la panteistica ‘Invocazione alla natura’ (“Nature immenseâ€, nel quarto quadro), nonché i due finali: la ‘Corsa all’abisso’ e il ‘Pandaemonium’, nei quali si consuma il destino negativo di Faust, con le anime infernali che s’impossessano della sua anima, dando la vittoria a Mefistofele: unico epilogo possibile di una storia in cui la
pietascristiana, il perdono ottenuto dalle preghiere di Margherita non hanno luogo. Questo trionfo del demoniaco non è solo un modo per differenziarsi dall’illustre modello letterario («Di Faust non c’è solo quello di Goethe», sosteneva Berlioz), ma per sottolineare le valenze ultraromantiche proprie alla leggenda medioevale, e per tradurre, infine, una dimensione autobiografica, un destino di eroe
maudit: e dunque da sempre condannato, che stava già alla base della celebre
Sinfonia fantastica. Oltre a questa inquietudine esistenziale,
La damnation de Faustillustra altre tematiche ricorrenti nell’opera di Berlioz: dall’eterno femminino (di forte ascendenza goethiana) cantato in Margherita come in
Roméo et Juliette, nella
Mort d’Ophélie, nelle
Nuits d’étè, nella Didone dei
Troyens; al senso panico della natura, che Berlioz accoglieva dal suo nume Beethoven e dalla sua
Pastorale, quell’abbandono nel grembo della Grande Madre, che ispira i due assoli di Faust come anche la ‘Scena ai campi’ della
Fantasicae l’
Aroldo in Italia(‘Aroldo sulle montagne’). E al ‘popolare’, ideale costante dell’estetica romantica, Berlioz rende omaggio a più riprese: nella Danza di paese nel quadro della cantina di Auerbach, nel coro di studenti e soldati che chiude la seconda parte, e soprattutto nella esultante Marcia di Rácóczy, inserita a bella posta da Berlioz per recuperare un famoso pezzo di musica ungherese. Le fiamme e lo zolfo dell’infermo, a parte il finale, non sollecitano la fantasia di Berlioz più di tanto, e Mefistofele, piuttosto che un terribile «spirito che nega», appare come un lieto compagno di baldoria, un sottile
maître de plaisir(si ascolti la galante sua serenata); così, il demoniaco può sposarsi elegantemente con il magico e l’incantato, e da questa felice commistione scaturiscono tre memorabili interventi orchestrali: la Danza delle silfi e degli gnomi, il ‘Sonno di Faust’ nel quale egli ha la visione di Margherita, il Minuetto dei folletti che cullano Margherita dormiente: episodi che mostrano un Berlioz che rinuncia all’idea del clangore orchestrale per riscoprire la levità dei ritmi e il gusto dei singoli timbri. In contrapposizione a questa ‘magia bianca’, si pone il sacrale, cui Berlioz destina lo ‘Chant de Pâques’ (un recupero dalle
Huit scènes) e l’epilogo in cielo; ed è una corda che vibrerà in tutta la sua pienezza nell’oratorio
L’enfance de Christ.
Alla ricchezza di tematiche corrisponde una drammaturgia quasi rivoluzionaria e un’ampia varietà di soluzioni formali: non destinata alla scena,La damnation de Faustpuò eludere le abitudini del melodramma tradizionale, rifiutare una narrazione consequenziale, e disporre liberamente una serie ditableauxautonomi; in essi lo spazio assegnato alle pagine solistiche è nettamente minoritario rispetto ai cori, alle scene d’insieme e ai puri brani orchestrali, che avvicinanoLa damnation de Faustalla ‘sinfonia con cori’Roméo et Juliette, in cui il dramma di Shakespeare è ripensato e tradotto in assenza totale delle voci dei protagonisti. E molto differenziati sono i modelli degli interventi solistici: di grande aria di stampo operistico si può parlare solo per la romanza di Margherita all’arcolaio (“D’amour l’ardente flammeâ€), l’invenzione più indimenticabile dell’opera, con il suggestivo impiego del timbro del corno inglese come strumento obbligato; esempi di canto strofico che rimandano al Lied e alla ballata tedesca – come la Canzone della pulce di Mefistofele, l’arcaizzante Canzone del re di Thule (Margherita) e la Ballata del topo (Brander) – si alternano con ariosi (i due interventi di Faust o il “Voici des roses†di Mefistofele), per i quali una possibile suggestione sarà da ricercare nei grandi esempi di declamato nelletragédies lyriquesdi Gluck. Nelle pagine corali, analoga oscillazione tra toni marcatamente popolareschi, trasparenti polifonie di gusto ecclesiastico, e addirittura una fuga, dotta e grottesca insieme, sulla parola ‘Amen’, cantata in memoria del topo morto.
I tanti vertici creativi che abbiamo ricordato rendono pienamente godibile, anche senza ricorrere a filtri intellettuli,La damnation de Faust; e ne fanno un capolavoro di arte, assai più che romantica, barocca; variegata e suggestiva manifestazione di un approccio dissociato e contraddittorio con un mito letterario a lungo carezzato. Ma le ragioni morali che avevano guidato la mano di Beethoven nelFidelioe nellaNona sinfonianon hanno spazio nel ripensamento goethiano di Berlioz, artistadéracinéincapace di dare un univoco assetto interpretativo all’universo degli affetti, abbandonato a una sorta di estetismo e di amoralità . Nelle sue scelte formali ridondanti, nell’alternarsi di semplicità e di enfasi, di pudore e di diabolico, scavalcando miracolosamente l’epoca in cui fu creata,La damnationpuò apparire, come ha indicato Fedele D’Amico, opera di frontiera, assimilabile alla sensibilità di fine secolo e fors’anche del Novecento: l’età del Decadentismo, che del non scegliere, del sovrapporre, dell’agitarsi impotente e disorientato tra mondi diversi (pensiamo in primo luogo a Mahler, ma anche a Strauss e Puccini) ha fatto il tratto più tipico e affascinante della sua estetica.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi