Il Teatro Nuovo di Napoli era per tradizione il teatro della commedia per musica e della farsa. A questo fortunato genere Donizetti offrì un felice contributo con
Il campanello, atto unico composto per risollevare dalle precarie condizioni impresario e cantanti del Nuovo, rimasti disoccupati per la crisi in cui versavano i teatri della città a metà degli anni Trenta. Come per un’altra sua opera,
Betly, Donizetti rivestì qui la duplice veste di librettista e compositore, scrivendo alla fine del maggio 1836, in non più di una decina di giorni, l’intera opera. Certo, le proporzioni sono ridotte: solo cinque numeri musicali intercalati da parti in prosa (non manca la parte dialettale per il basso buffo, Don Annibale) nella concezione originale. L’anno seguente Donizetti stesso curò una ripresa al Teatro del Fondo, trasformando la farsa in operina buffa: sostituì la prosa con recitativi secchi, tradusse la parte dialettale in italiano e ampliò la parte musicale. Iter comune a quasi tutte le farse, funzionale all’eliminazione del colore locale caratteristico del luogo di produzione – fosse esso Napoli, Venezia, Roma – che, se costituiva una delle maggiori attrattive per gli spettatori della città d’origine, diventava un limite all’esportazione in ambiti diversi. La trama è quasi un
toposdell’opera buffa: il vecchio speziale di un sobborgo napoletano, Don Annibale Pistacchio, sta festeggiando le nozze con la giovane Serafina e i parenti tutti, quando irrompe Enrico, ex amante di lei segretamente riamato, rivendicandone l’amore (“Non fuggir!”) e cercando con mille fantasiosi espedienti di evitare che Don Annibale possa finire a letto con Serafina. Il campanello diventa diabolico strumento al proposito di Enrico, che suona alla bottega dello speziale ora travestito da damerino francese, indi da cantante che ha perduto la voce (“Ho una bella”), infine da vecchio che sciorina una interminabile lista di medicine (“Mio signore venerato”). Arriva l’alba, e Don Annibale deve lasciare la moglie e partire in diligenza. L’antico corredo della farsa – i travestimenti, il gioco di entrate e uscite, i paraventi, il buio, il plurilinguismo (che è gioco di dialetti, di lingue storpiate) – rivive come propaggine settecentesca in un secolo che, dopo
Elisir d’amoree
Don Pasquale, a teatro avrebbe riso poco.
Fonte:
Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi