Verdi s’appresta per puro caso alla sua seconda opera, l’unico titolo comico prima di
Falstaff(1893), con cui darà l’addio alle scene: dopo il lusinghiero debutto alla Scala con
Oberto(1839), si trovò a dover rimediare all’improvvisa defezione di un collega, incaricato di scrivere un’opera comica per la stagione successiva. I tempi strettissimi non consentivano l’approntamento di un nuovo libretto: venne così rispolverato un vecchio testo di Felice Romani,
Il finto Stanislao, a suo tempo già messo in musica da Adalbert Gyrowetz (Milano 1818); rappezzato in fretta e furia, solo tre mesi prima dell’andata in scena fu consegnato a un Verdi che fece di tutto per liberarsi dall’impegno, adducendo fra l’altro la scarsa propensione a scrivere un’opera comica a pochi giorni dalla morte della moglie. A tali circostanze familiari i biografi hanno attribuito per più di un secolo la causa del suo solenne ‘fiasco’ (l’opera venne ritirata dopo la prima sera), mentre le cronache dell’epoca sono concordi nell’attribuire la responsabilità dell’insuccesso agli esecutori, poco inclini al repertorio buffo. Quanto all’opera, le manchevolezze vanno piuttosto ricercate nel libretto, un testo obsoleto in un’epoca in cui l’opera comica segnava ormai gli ultimi passi, e che di comico, a ben vedere, mostra ben poco, se si esclude la convenzionale coppia di buffi (La Rocca e Kelbar) che intrallazzano ai danni dei due giovani innamorati (Edoardo e Giulietta, rispettivamente nipote e figlia di quelli), per combinare il solito matrimonio d’interesse fra il vecchio ricco (La Rocca) e la bella giovane (Giulietta). A queste s’intrecciano senza motivo le vicende ben più serie di una marchesa alla ricerca del suo amato cavaliere, un aristocratico spensierato costretto dalla ragion di stato a farsi passare per Stanislao, re di Polonia, così da permettere al sovrano di rientrare incolume a Varsavia: a giustificare la loro presenza in scena è solo il compito di convogliare l’azione matrimoniale verso il giusto fine.
A Verdi non rimaneva che dipingere la vicenda con una generica tinta brillante, a cominciare dalla sinfonia comicamente goffa, pervadendo l’intera partitura di temi frizzanti pseudo-rossiniani, con occasionali ripiegamenti verso toni patetici di donizettiana memoria negli interventi degli amanti contrastati (“Grave a core innamoratoâ€, “Non san quant’io nel pettoâ€, “Pietoso al lungo piantoâ€, “Si mostri a chi l’adoraâ€). Ma nulla poteva contro un’azione che latita per quasi tutto il primo atto e che nel secondo si spegne senza mai un colpo di scena a ravvivarla; nulla avrebbe potuto di fronte a recitativi che, ridotti all’osso rispetto al libretto originale, non offrono particolari espressioni o situazioni di comicità , e scorrono quindi noiosamente attraverso le formule melodiche stereotipate del vieto recitativo secco. Tale esperienza negativa ha probabilmente precluso altri e più efficaci approcci del giovane Verdi al repertorio comico; la vena brillante del compositore, qui tutta già presente, ha comunque continuato a manifestarsi irrefrenabile in tante scenette sparse delle sue migliori opere successive, con esiti elevati inRigolettoeUn ballo in maschera.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi