Il secondo soggiorno di Cesti a Innsbruck (1662-66) non dovette essere particolarmente stimolante: morto l’arciduca Ferdinando Carlo, che tanti favori aveva disposto per il suo compositore preferito, le sollecitazioni del successore Sigismondo Francesco non sembrano coinvolgere adeguatamente il musicista di corte; Cesti comincia dunque a trattare con Venezia. L’impresario Marco Faustini, fratello del più noto librettista di Cavalli, si rende disponibile per la stagione del 1666. La nuova opera con musica di Cesti avrà il libretto di Niccolò Beregan, librettista veneziano già noto per
L’Annibale in Capuaallestito con musica di Pietro Andrea Ziani (1661; a Ziani viene invece affidata l’altra opera della stagione, all’ultimo momento sostituita però con
Oronteadi Cesti). Purtroppo fu operazione fallimentare per Faustini, ché le opere di Cesti, nate per la corte austriaca, richiedevano un elevato dispendio di mezzi (e la scelta di cantanti tanto rinomati quanto ben pagati non si rivelò una strategia vincente): il suo voler insistere in questa direzione (l’anno successivo allestirÃ
La Dorisempre di Cesti) lo fece fallire in un paio di stagioni. Cesti invece accrebbe la sua popolarità e
Il Tito, a cui assistettero nomi celebri della nobiltà romana, fu replicato ‘postumo’ nel 1672 al Tor di Nona di Roma.
Il Titotuttavia non rientra fra le sue opere più popolari (quelle cioè degli anni Cinquanta, fra cui
Oronteae
La Dori); fu un primo passo verso il mercato veneziano, che più di altri assicurava prestigio e fortuna agli allestimenti di maggiore riuscita.
Il libretto di Beregan pesca nella storia romana, elemento caratteristico dei libretti veneziani degli anni Sessanta, e più che di Tito, si occupa di Berenice, regina di Giudea, fuggita per amore di Polemone di Licia e catturata in una rappresaglia dell’esercito romano. Di Berenice si innamorano più o meno tutti i maschi che cantano nell’opera. Primo fra questi Tito, che suscita indicibili gelosie nella promessa Martia Fulvia (preoccupata soprattutto per il trono) la quale, per scongiurare le nuove infatuazioni di Tito, pratica rituali incantesimi con il mago Apollonio (efficacissimi per barocche apparenze e movimenti di macchine); il secondo pretendente è Domiziano, che prima tenta invano di violentare Berenice travestito da Tito, suo fratello, poi chiede altrettanto invano al comandante delle truppe Largio Lepido di rapirla, infine desiste e decide di abbandonare le tribolazioni di Venere per tornare fra le braccia di Marte (fare il guerriero sarà certo meno pericoloso); terzo, naturalmente, lo stesso Lepido il cui valore, secondo Agrippa, fratello di Berenice, meriterebbe di essere premiato con la mano della sorella; quarto Celso (con grande scorno della compagna Fulvia Sabinia) che, ignaro, ferisce la stessa Berenice in vesti maschili per fuggire di nuovo con Polemone; nemmeno il servo Ninfo, quinto della fila, riesce a rimanere indifferente, pur sapendo di non aver speranza alcuna di fronte a tanto pretendere. Polemone da parte sua, tenterà di uccidere Tito per aver tentato di violare l’amata. Il gesto, frainteso dallo stesso Tito qual momento di prodezza, sarà benignamente ricompensato con la mano di Berenice (e agli altri non resterà che consolarsi coi vecchi amori, se già intrapresi).
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi