Soggetto frequentatissimo dal teatro d’opera quello di Didone, e fin dal Seicento trattato nelle forme più disparate. Dopo l’esordio di Busenello e Cavalli – e prima della
Didone abbandonatadi Metastasio – il mito è messo in musica ovunque: oltre alla versione inglese di Purcell (1689), ecco la
tragédie en musiquedi Henri Desmarets (Parigi 1693) e quella tedesca di Christoph Graupner (Amburgo 1707). Tutte coinvolte dall’aspetto tragico della vicenda e dal dolore infinito della regina di Cartagine. Non in Italia: da noi l’opera, almeno in questi anni, non può avere finale tragico – le eccezioni a questa regola si contano sulle dita di una mano (e fra queste è proprio un’altra
Didone, quella di Andrea Mattioli su libretto di Paolo Moscardini: Bologna 1656). Così Busenello, che non trascura di infarcire i suoi sottili versi filosofeggianti con una larvata critica politica, risolve la vicenda, senza molta convinzione, con un matrimonio fra l’infelice regina e Iarba (una soluzione che avrebbe inorridito Virgilio), con tanto di tentativo di suicidio reciproco, reciprocamente sventato. Ma a parte il finale e la figura di Iarba, che perde presto il senno perché inizialmente rifiutato da Didone (elemento comico già sperimentato nella
Finta pazzadi Strozzi e Sacrati), questa
Didonerimane comunque opera di profonda tragicità , certamente la più cupa fra tutte quelle di Cavalli e forse una delle più tormentate di tutto il Seicento. Le poche scene comiche diventano di amaro sarcasmo, e se non fosse per la pazzia di Iarba o un paio di coretti di damigelle l’opera si trasformerebbe in un immenso, disperatissimo e inconsolabile ‘lamento’, qui sperimentato da Cavalli in tutte le sue forme (su tetracordi diatonici e cromatici, in ritmi ternari e binari, con versi piani e sdruccioli): così langue Ascanio partecipe della disperazione del padre; langue Cassandra per l’amato Corebo che le sta morendo fra le braccia; langue Ecuba stanca di vivere di fronte alla disfatta di Troia; langue Enea al ricordo dell’omicidio della moglie Creusa (che poi gli appare in sogno; non rimane escluso nemmeno Iarba che, appena prima di impazzire, si dispera per esser stato rifiutato da Didone; e doppiamente affranta è Didone, prima per la partenza di Enea e poi per aver tradito la memoria del marito Sicheo (“Porgetemi la spadaâ€, il momento più intenso e disperato: III,11). Ma il mito di Didone piace ai veneziani non solo per la componente tragica: ugualmente sensibili sono per quella eroica. Didone – come in genere il viaggio di Enea, e tutte le vicende legate alla guerra di Troia – ricorda infatti alla laguna la sua identità politica repubblicana, perché la Repubblica romana (di cui Venezia si considera diretta discendente) deriva dalla stirpe di Enea esule troiano, ed esuli e perseguitati furono all’inizio gli stessi veneziani.
Didonefu la prima opera di Cavalli allestita in epoca moderna (1952), in occasione dei trecentocinquant’anni dalla sua nascita.
Fonte:
Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi