Giovanni Legrenzi iniziò la sua produzione teatrale a Ferrara dove occupò, dal 1657 al ’65, il posto di maestro di cappella dell’Accademia dello Spirito Santo: qui fece rappresentare
Nino il giusto(1662, su libretto di autore ignoto),
L’Achille in Sciro(1663) e
Zenobia e Radamisto(1665), entrambe su testi di Ippolito Bentivoglio. Quest’ultima opera (successivamente riproposta a Venezia come
Tiridate, 1668, su libretto riveduto da Nicolò Minato), segna probabilmente una prima collaborazione con il Teatro San Salvatore, che diventerà più stretta a partire dal 1675, anno in cui a Legrenzi venne commissionata
La divisione del mondo.
Il soggetto dell’opera, facendo riferimento ai testi di Apollodoro e alleFabulaedi Igino, rielabora il mito della rivolta dei Giganti, furibondi perché Zeus aveva confinato nel Tartaro i Titani, loro fratelli. L’argomento riportato nel libretto precisa: «(...) ma fulminato dall’alta destra l’Orgoglio insano, restò sepolta sotto le proprie ceneri l’alterigia degli Empij (...). Quindi Giove spezzando le catene all’antico padre Saturno, già prigioniero de’ sudetti, assicurò sulla stragge de’ rubelli Titani il vasto Regno de Cieli, e poiché viddesi dalle bellezze di Venere sorger più cruda guerra riunì la pace de’ Numi colla divisione del Mondo, assignando à Nettuno lo Scettro de Mari, ed a Pluto l’Impero di Dite». La narrazione prosegue: «Si finge che Venere lontana dal marito Vulcano fuggisse con Amore suo figlio nel Cielo per diseminare fiamme amorose nel cor de Numi, al cui arrivo ingelosita Giunone accaggionasse da quella Reggia l’esiglio d’Amore. Che lo stesso disceso nell’inferno suscitasse la Discordia conducendola in Cielo co’ suoi ministri per concitare nel seno de’ Medesimi, Sdegni, Gelosie, Guerre, e Furori. Che infine Cintia sorella d’Apollo fosse dalla stesso destinata per isposa a Nettuno, ma divenisse, come narrano le Favole, Consorte di Pluto».
Non potendo disporre della musica, andata perduta, occorre attenersi alle informazioni disponibili grazie al libretto, nonché alle notizie che ci dicono l’opera aderente alle consuetudini del teatro veneziano dell’epoca, che badava più allo sfarzo scenografico, ottenuto con costosi macchinari, che all’impianto drammatico dell’azione, praticamente assente. Non privo di ossequio alle alte cariche dello stato e alla sue insegne è l’apparato scenico che dà inizio all’opera: «Allo scoppio d’un fulmine s’alza la Tenda, e si vede il Proscenio occupato da Nuvole, quali doppo varij moti formano un leone coronato nel mezzo». Sette delle nove scene sono ambientate in un ‘Cielo’ («Reggia nel Ciel di Giove»), mentre i primi due atti si concludono con un ballo «di Ministri della Discordia usciti dagl’infocati vapori della medesima», e «di Numi, e di Dee». Peraltro in quest’opera, come sottolinea Hellmuth Christian Wolff, si realizza al tempo stesso «una parodia della vita degli dèi che anticipa Offenbach»; infatti «le divinità altercano ignobilmente tra loro per l’amore di Venere, richiamando alla mente le parodie di eroi e dèi scritte da Alessandro Tassoni, Francesco Bracciolini e Carlo de’ Dottori».
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi