A meno di considerare anche l’atto unico giovanile
La legge, scritto nel 1955 come saggio di composizione,
Atomtodè il secondo lavoro per il teatro musicale di Giacomo Manzoni dopo
La sentenza(1960), ancora su libretto di Emilio Jona. Ed è certamente quello che meglio documenta la fase di impegno politico attraversata dal compositore milanese negli anni Sessanta e Settanta. In tale chiave va letta persino la scelta del titolo in tedesco, in quanto la Germania nazista si può considerare, a detta dell’autore, la patria spirituale della bomba atomica. Il soggetto dell’opera trae spunto dalla moda, che imperversava negli anni Sessanta in certi ambienti americani, di cautelarsi, in caso di scoppio di guerra atomica, attraverso la costruzione di rifugi antiatomici. Uno di questi rifugi-bunker domina la scena di
Atomtode costituisce la linea di demarcazione dei piani narrativi e scenici: chi vi è dentro, e sono coloro che possono permetterselo, e chi può solo ambire a entrarvi ma senza averne la possibilità .
Atto primo. Si assiste alla costruzione del rifugio e alla scelta, da parte del proprietario, di chi ospitarvi (vi saranno ammessi soltanto un servo, un generale, un prete e una donna attraente); il tempo si chiude sullo sgomento degli esclusi, sui quali cade un presagio di morte, nonostante uno speaker fuori scena esorti la popolazione alla calma.
Atto secondo. Dopo una rappresentazione in simultanea della vita dentro e fuori il rifugio, si è posti di fronte a quel che resta dopo lo scoppio della bomba: chi non ha potuto ripararsi, ridotto ormai a fantasma di se stesso, si maledice per non essersi ribellato; e ai sopravvissuti, colpiti dalla perdita di identità più che dalla bomba, perdita dovuta alla realtà artefatta nella quale hanno scelto di vivere, non resta che intonare un canto che vorrebbe essere di esultanza, ma che non riescono a portare a termine per i sempre più fastidiosi interventi delle interferenze elettroniche di un nastro magnetico, metafora della distruzione interiore della loro personalità .
Carattere singolare di quest’opera è che un compositore stilisticamente rigoroso come Manzoni traduca l’impegno politico, esplicito nel soggetto, in una molteplicità quasi eclettica di fattori sonori: l’elettronica, le canzonette, il jazz, il gregoriano si inseriscono infatti come elementi drammatico-parodistici nella struttura seriale del lavoro. Un altro elemento sostanziale risiede nella realizzazione di un ideale di collaborazione artistica tra musicista, librettista, scenografo (Josef Svoboda), regista (Virginio Puecher) e autore degli inserti cinematografici, che il musicista milanese andava propugnando in quegli anni anche a livello saggistico-teorico. L’opera, battezzata con successo alla Piccola Scala nel 1965, ha goduto negli anni successivi di diverse riprese, ora in forma scenica e ora in forma di concerto. In anni recenti sembra meno destinata ad averne di nuove, in parte perché è scematotout courtl’interesse per la produzione politicamente impegnata, in parte perché superata artisticamente dai successivi lavori di teatro musicale di Manzoni.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi