Con la sua prima opera, scritta in Germania per un pubblico tedesco, Hasse guarda già distintamente all’Italia. Erede di una famiglia di organisti, attivi lungo il Seicento in importanti centri sul Baltico (Lubecca, Rostock, Helsingør), il giovane Hasse aveva lasciato presto Bergedorf per Amburgo: tragitto breve, ma dalle conseguenze incalcolabili. In quegli anni di studio, fra il 1714 e il ‘18, l’Opera di Amburgo non era affatto la culla gloriosa – tante volte descritta – «di uno stile autenticamente tedesco»; era un teatro con seri problemi finanziari e di gestione, avviato decisamente – sotto la guida del suo direttore-factotum, Reinhard Keiser – verso una standardizzazione del repertorio, sulla base dei comuni modelli italiani: l’adattamento di drammi veneziani era prassi corrente mentre, con le recenti opere di Händel (
Rinaldo,
Amadigi), iniziava l’importazione diretta di titoli nati altrove. Se «il ‘dramma per musica’ dell’epoca è, anche sotto il profilo letterario, tutto fuorché un monolite fatto di convenzioni inesorabili» (Strohm), nessun’altra città poteva offrire un panorama così vario, eclettico, spregiudicato delle tendenze in atto; nella cosmopolita Amburgo, legata a Londra non meno che a Vienna e alle corti tedesche, la musica giungeva dai quattro punti cardinali, per un teatro aperto tutto l’anno e non – come in Italia – su base stagionale. Opere di Händel (
Agrippina; ripresa di
Amadigi) e di Vivaldi, pasticci su arie italiane (Bononcini, Lotti, Caldara), la prima comparsa degli intermezzi (
Tuberone e Dorimena): questo il cartellone del Gänsemarkt nel 1718-19, all’indomani dell’ingresso di Hasse (tenore) nella compagnia stabile del teatro. Solo più tardi, con il passaggio a Braunschweig (1719), il quadro si assesta su alcuni filoni fondamentali: primo fra tutti quello viennese, con le opere dei due maestri alla corte imperiale, Francesco Conti (
Don Chisciotte in Sierra Morena,
Sesostri re d’Egitto) e Antonio Caldara (
Lucio Papirio dittatore). Già è indicativa, per l’
Antioco, la scelta di un dramma di Apostolo Zeno, da poco nominato (1718) poeta cesareo; Hasse se ne servirà anche in seguito, ma in casi e momenti particolari: a Napoli, per il suo esordio sulle scene italiane (
Sesostratee
Astarto, 1726), e nel 1732, subito dopo l’incontro con la poesia metastasiana (
Cajo Fabricioper Roma,
Euristeoper Venezia; isolato, chiude la serie proprio il
Lucio Papirio, Dresda 1742). La vera sorpresa è però nella musica; qui Hasse è inconfondibilmente se stesso, e chi inseguisse la traccia – più o meno incerta – di quelle disparate esperienze amburghesi potrebbe rimanere deluso. In forma esile, quasi miniaturistica, le sei arie superstiti dell’
Antiocomostrano qualità e caratteristiche che Hasse avrebbe sviluppato, affinato, impreziosito per oltre mezzo secolo: una linea melodica sciolta, nitida, elegante, entro una cornice formale chiara e un tracciato armonico trasparente; netta preminenza al canto, alle sue esigenze, alla sua civiltà , con sezioni di coloratura perfettamente graduate e delimitate, mai a scapito dell’equilibrio complessivo; un ritmo agile, scattante, immediatamente percepibile, quasi il riflesso e la ‘naturale’ espansione della struttura metrica dell’aria, del suo originario respiro vocale. Hasse stesso cantò nell’
Antioco, nel ruolo del protagonista (una sovrapposizione, questa fra compositore e cantante, non insolita in area tedesca: comune ad esempio a Mattheson e Telemann); non sarebbe mai più accaduto: presto partirà per l’Italia, e sarà il maestro richiesto e ammirato dalle più celebri voci del secolo.
Fonte:
Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi