Come tre precedenti debutti, anche
Alahor in Granataè opera di ambientazione spagnolesca. Era già accaduto nel 1822, con
Zoraide di Granataa Roma, con la
Zingaraal Teatro Nuovo di Napoli – accolte assai felicemente – e in ottobre alla Scala, con la sfortunata
Chiara e Serafina. Con
Alahor in GranataDonizetti si presentò al nuovo pubblico palermitano nell’inverno del 1826. Era la nuova opera che per contratto Donizetti era tenuto a comporre per il Teatro Carolino, ove aveva accettato l’incarico annuale di maestro di cappella (dall’aprile 1825 al febbraio ‘26), miseramente retribuito e rivelatosi onerosissimo: «Già il mestiere del povero scrittore d’opere l’ho capito infelicissimo fin dal principio...» scriveva in quell’inverno (a Mayr, 21 dicembre), con parole rimaste celebri.
L’opera narra dell’amore genuino e reciproco dei protagonisti, la tenera Zobeida e il saggio e virtuoso giovane re di Granata, Muley-Hassem. Il sentimento dei due giovani contrasta con il conflitto delle stirpi di appartenenza; le famiglie degli Zegri e degli Abenceraghi sono infatti divise da passate vicende di sangue: una lacerazione che anche la saggia politica conciliatrice del giovane sovrano di Granata non è riuscita a rimarginare. Alahor, fratello di Zobeida, rientra nascostamente in Granata e apprende inorridito dell’amore tra la sorella e Hassem; decide dunque di uccidere il sovrano a ogni costo e offre il suo aiuto ad Alamar, capo degli Zegri più intransigenti: costoro sono infatti in dissidio con il loro re, troppo magnanimo verso gli Abenceraghi. È un contrasto «di gioia e di dolore», a fianco del quale si svolge parallelo quello tra perdono e vendetta. Hassem tuttavia scopre il piano e perdona Alahor; in conclusione la voce corale e quella dell’eroina Zobeida confluiscono in armonioso unisono (“Sol perfetto è quel diletto che il dolore preparòâ€) che risolve la vicenda con un catartico lieto fine.
I condizionamenti palermitani sono rintracciabili da un lato nel ruolo di Muley-Hassem, affidato al contraltoen travesti, ma soprattutto nell’inconfondibile scrittura belcantistica, riservata in particolare alle parti di Zobeida (Elisabetta Ferron) e Alahor (Antonio Tamburini, baritono celebre per l’eleganza tecnica). Di quel debutto rimane preziosa e premonitrice testimonianza una recensione anonima del giornale palermitano ‘La Cerere’: «Questo sobrio e delicato compositore ha la prudenza di attenersi al punto medio fra il bello dell’antica musica e gli slanci della nuova, quindi fa presagire per esso un’epoca di fama maggiore, quando col tempo avrà preso quell’ardire che dopo i reiterati e felici successi porta seco la fiducia nelle proprie forze».Alahorfu ripresa il 19 luglio dello stesso anno a Napoli, con interpreti d’ancor maggiore risonanza (Henriette Méric-Lalande e Giovanni Battista Rubini). Solo due settimane prima, per ilgalareale del 6 luglio, aveva esordito al San Carlo l’Elvida: melodramma in un atto ancora ambientato in Spagna, con Mori e Castigliani in guerra tra di loro; il librettista Giovanni Schmidt aveva infatti utilizzato fonti analoghe a quelle diAlahoreZoraide di Granata. Il breve intervallo tra le due rappresentazioni, l’analogia della scrittura vocale, inElvidaancora più fiorita – gli interpreti principali (Méric-Lalande e Rubini, con il celebre basso Lablache) erano gli stessi – e l’analogia dei soggetti finì per compromettere un successo più duraturo. Sei anni più tardi la marcia moresca diAlahortroverà nuova collocazione nell’Elisir, al seguito del plotone del sergente Belcore.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi