Scritta all’inizio degli anni Quaranta, nel decennio che vide il compositore accostarsi a ricerche linguistiche più avanzate,
Le baccanti(1941-43) è l’opera teatrale più importante di Ghedini. È possibile riscontrarvi un idioma linguistico personale – in raffinato equilibrio tra tonalità e comportamenti quasi seriali – che sembra sancire una svolta nei confronti della precedente produzione, caratterizzata invece da una volontà di recupero degli ideali della civiltà musicale italiana tra Cinquecento e Seicento. Tale atteggiamento ‘modernista’ risulta in realtà dalla ricerca di un continuo adeguamento del proprio linguaggio a situazioni differenti, così da trovare il codice linguistico-musicale di volta in volta più consono al testo scelto. Estremamente chiarificatrici, in proposito, le affermazioni del compositore stesso: «Stavo veramente per affrontare un soggetto assolutamente lontano e staccato da ogni tradizionalismo; soggetto i cui personaggi si muovono in un clima quasi allucinato e in cui invano si cercherebbero le situazioni scenico-drammatiche comuni e consuete del melodramma». Per tale progetto Ghedini poté avvalersi di un libretto il cui taglio sintetico e assieme ricco di fervide immagini poetiche, pervaso da un’atmosfera favolosa e soprannaturale, permise allo spirito della tragedia euripidea di rivivere in una penetrante creazione timbrica, immagine dello sconvolgimento scatenato dal culto dionisiaco.
Prologo. Tebe, davanti al palazzo del re. Dioniso, giunto in Grecia dall’Asia, si accinge a convertire al suo culto l’intera città . Annuncia a Penteo la sua volontà di prevalere e ordina ai tebani di seguirlo sul monte Citerone, dove verranno celebrati i riti estatici del suo culto.
Atto primo. Davanti al palazzo del re. Un’isteria di massa sembra essersi impadronita della popolazione della città : i sacerdoti dell’antica religione vi riconoscono l’azione di una forza sconosciuta e Tiresia predice l’avvento di un nuovo dio. Il giovane re Penteo, ritornato con alcuni compagni, rimprovera agli anziani di non aver adeguatamente protetto la città , ma Cadmo replica che hanno dovuto cedere a forze misteriose. Una grande folla di tebani, intanto, ha intrapreso il cammino verso i verdi prati del Citerone guidata da Agave, madre di Penteo. Dioniso, sotto le spoglie di un negromante asiatico, viene condotto in catene al cospetto di Penteo per aver istigato degli uomini alla rivolta. Egli si dichiara al servizio di una nuova divinità ma Penteo – che non intende servire un dio «impudico» – lo fa imprigionare. I sacerdoti di Apollo, dopo la profanazione compiuta da Dioniso, compiono un rito di purificazione.
Atto secondo.Quadro primo. Davanti al palazzo del re. Al tramonto le menadi si sono radunate davanti al palazzo di Penteo in attesa della vendetta del loro dio: è il sopraggiungere di un terremoto a permettere a Dioniso di liberarsi. Frattanto un bifolco riferisce a Penteo che le menadi, guidate da Agave, stanno facendo a brani e divorando gli animali delle greggi. Dioniso appare a Penteo e con toni suadenti ne stuzzica la curiosità . Lo induce infatti a traverstirsi da menade e a salire sul Citerone per cogliere i segreti delle baccanti, annunciandogli anche, enigmaticamente, la sua prossima fine.Quadro secondo. Sul monte Citerone. Giunti sulla sommità del monte, Dioniso invita Penteo a osservare le baccanti. Il feroce dio rivela però alle menadi che fra loro v’è una presenza estranea e guida con febbrile ossessione la caccia all’uomo che l’aveva oltraggiato. Invasate dal dio, le donne di Tebe uccidono Penteo come un animale sacrificale; è Agave stessa a decapitarlo, convinta di aver davanti un giovane leone.
Atto terzo. Piazza di Tebe, notte. Agave rientra a Tebe: corre per le piazze della città con le sue menadi agitando la testa della preda infissa sul tirso fino a quando – riportata alla ragione dal padre Cadmo – si risveglia e cade a terra. Affranta dal peso dell’agghiacciante realtà , implora pietà per sé e per i suoi cari al perfido dio, ma Dioniso la condanna a errare per il resto della sua vita piangendo il figlio.
In questo lavoro la concezione teatrale di Ghedini rivela una fede assoluta nelle ragioni della drammaturgia: climi sonori estremi (dall’immobilità tragica o estatica all’eccitata esaltazione orgiastica), talora ‘trasfigurati’ anche dall’impiego di amplificatori elettrici sul palcoscenico e in teatro, si avvicendano e si contrappongono dando luogo a una raffinata individuazione timbrica e linguistica di situazioni e personaggi. Esemplare, a tal proposito, l’impiego dell’orchestra, ma la stessa vocalità , col suo duttile avvalersi di diversificate tecniche e registri espressivi, vi partecipa ampiamente (emblematiche le figure chiave di Dioniso e Agave, importante la presenza del coro). Ovunque è la musica a sollecitare il dramma ed è proprio questo aspetto a costituire il contributo originale del musicista, al di là dell’individuazione dei possibili modelli stlistici di riferimento che più volte ha indotto a parlare di epigonismo o di eclettismo. Benché l’opera possa essere considerata tra le principali produzioni teatrali italiane di quel periodo, ottenne adeguato apprezzamento solo con la ripresa milanese del 1972.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi