Nel 1829 Donizetti aveva assunto, non senza esitazioni, l’incarico di direttore dei Reali Teatri di Napoli, già ricoperto da Rossini, Mercadante e Pacini. Quell’anno diede alla luce due melodrammi per il Teatro San Carlo di Napoli:
Il pariae
Il castello di Kenilworth. Nella primavera il musicista si ammalò seriamente, e fu costretto a posticipare il debutto previsto per il 30 maggio. Il melodramma esordì il 6 luglio, nel galà per «il faustissimo giorno natalizio» della regina. Donizetti riferisce delle accoglienze del pubblico napoletano in una lettera al maestro Mayr (24 luglio): assai applaudita alla prova generale, l’opera era stata accolta con freddezza la prima sera e aveva suscitato entusiasmo alla seconda rappresentazione del 12 luglio. Con lievi modifiche (la parte di Warney fu affidata a un baritono anziché a un tenore) venne ripresa l’anno successivo sempre al San Carlo col titolo
Elisabetta al castello di Kenilworth. Il soggetto dell’opera deriva dal romanzo
Kenilworthdi Walter Scott del 1821, tradotto lo stesso anno da Gaetano Barbieri. È il primo incontro con un soggetto di storia inglese e con la figura della regina Elisabetta, poi approfondito con i grandi drammi di
Maria Stuarda(1834) e
Roberto Devereux(1837).
Il conte Leicester è in apprensione per l’annuncio dell’arrivo di Elisabetta: egli è il favorito della regina, ma in segreto ha sposato Amelia, di cui è effettivamente innamorato. In attesa che la regina riparta, ordina al fido Lambourne di nasconderla. Lo scudiero Warney la rinchiude nel «più romito albergo» del castello e cerca di sedurla insinuandole il sospetto di una «caduta d’affetto» del marito; viene respinto e giura di vendicarsi. Amelia tuttavia riesce a fuggire e in un giardino segreto si imbatte in Elisabetta: in lacrime svela la sua pena per Leicester, che crede la abbia tradita. Adirata, Elisabetta esige spiegazioni da Leicester e Warney, mentendo, dichiara che Amelia è sua moglie. Leicester svela allora il suo matrimonio con Amelia a Elisabetta che lo scaccia adirata. Warney vuole portare a compimento la sua vendetta e cerca di avvelenare Amelia, ma la fida Fanny riesce a fermarlo. Elisabetta ha ormai compreso tutto: ordina l’arresto di Warney e di Lambourne, perdona Leicester e Amelia e approva il matrimonio tra il giubilo generale per la sua magnanimità .
Nel corso del progressivo affrancamento dal modello stilistico rossiniano,Elisabettasembrerebbe un momento di stasi, un ritorno a formule belcantistiche più convenzionali. Lo stesso Donizetti confidava a Mayr: «Non darei un pezzo delPariaper tutto ilCastello di Kenilworth». Eppure l’opera totalizzò dieci rappresentazioni nel 1829 e altre quattro l’anno successivo, mentreIl paria, presentato il 12 gennaio, non ne ebbe che cinque. Bisogna però tener conto che la trama dell’opera non si discosta sostanzialmente dall’Elisabetta regina d’Inghilterradi Rossini (1815), che restò in repertorio al San Carlo fino al 1835, ed ebbe sette riprese nel 1829, tre mesi prima delCastello di Kenilworth. È lecito ritenere che Donizetti, affrontando un soggetto di tal successo, decise prudentemente di non discostarsi troppo dal linguaggio musicale di Rossini. Nell’opera si confrontano due ruoli femminili contrapposti affidati a due soprani, Amelia ed Elisabetta. Quest’ultima, con il suo canto ricco di vocalizzi e costellato di agilità , realizza l’idea di regalità secondo Donizetti: il suo ingresso (“Sì, miei figli, il più bel dono†I,6), preparato da squilli di tromba e da un coro festante e aulico (“Vieni, dell’Anglia grand’eroina†che Donizetti trasferirà con un curioso spunto umoristico nell’Elisir d’amore– I,4 – come benvenuto a Dulcamara), è una fitta parata di colorature di stampo rossiniano; il linguaggio fiorito diventa veemente nella collera con Leicester (“Paventa o perfidoâ€) e viene esaltato nelle acrobazie del rondò finale (“È paga appien quest’almaâ€). D’altro lato Amelia, che ha una tessitura più acuta, si presenta con colorature piuttostro complesse nel dialogo con Leicester, ma non ha fioriture nel duetto con la regina ed espande la sua umanità nella struggente aria “Par che mi dica ancora†(III,2), con brevi ornamenti che ne sottolineano nostalgia e levità , e con l’insolito accompagnamento della glasharmonica. Nell’opera si distinguono in particolare i duetti, dai toni spesso accesi e veementi, mai convenzionali, e il quartetto conclusivo del secondo atto (“Dessa, Amelia, e alla reginaâ€), secondo Ashbrook la «pagina migliore della partitura», in cui i protagonisti sono vividamente colti nel momento cruciale della vicenda. Il melodramma è tornato sulle scene moderne nel 1977 in Inghilterra e nel 1989 al Festival Donizettiano di Bergamo.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi