Ritrovata all’insegna della favola la via del teatro con
La donna serpente(1928-31), Alfredo Casella ne sondò immediatamente le possibilità in un’altra direzione alternativa a quella del melodramma ottocentesco. Con la
Favola d’Orfeosi dedicò infatti alla riesumazione del testo quattrocentesco di Poliziano, affidato alla riduzione di Corrado Pavolini, perseguendo l’ideale di un teatro arcaicizzante, attinto a una fonte letteraria preziosa. Nella
FavolaCasella e Pavolini affrontano il mito di Orfeo ed Euridice con atteggiamento intellettualistico, proponendosi di rivisitarlo con distacco novecentesco e mezzi linguistici moderni, intinti in alcuni segni musicali remoti (si pensi, tra gli altri, a certi ritmi da ouverture francese seicentesca). E ciò è bastato perché quest’opera venisse recepita come esercitazione stilistica di gusto geometrizzante, come punto culminante del neoclassicismo caselliano. Di fronte all’impianto drammatico estremamente concentrato della
Favola d’Orfeo, il musicista abbandona infatti il caleidoscopico eclettismo della
Donna serpente, per sperimentare un teatro dove l’innata esigenza di sobrietà espressiva e il bisogno di misura della sua musica sfociano in un lavoro la cui tipologia cameristica risulta evidente sia nella vocalità , sia negli inserti corali o strumentali. Un’opera che, per questi caratteri, risulta quasi asettica, senza indulgenze a qualsiasi tipo di coinvolgimento emotivo, neppure nei momenti altamente patetici delle scene infernali.
Fonte:
Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi