È stato detto che il vero protagonista di
Morte dell’ariaè il coro: trattandosi dell’opera, anch’essa in un atto, che chiude nel 1950 la fulminea esperienza teatrale di Petrassi cominciata con
Il Cordovano(1948), l’importanza del piccolo coro femminile fuori scena è particolarmente significativa. La scrittura corale, infatti, scorre come uno sfondo di pensieri – narrativo e musicale – che sostiene e dà senso alla vocalità dei personaggi maschili sul palcoscenico. Del resto le pagine corali di
Morte dell’aria, quasi contemporanee alla cantata per coro e orchestra
Noche oscura(1951), giungono dopo il
Salmo XIper coro e orchestra (1936), il
Magnificatper soprano leggero, coro e orchestra (1940) e il madrigale drammatico su versi leopardiani
Coro di morti(1941). In tutti questi lavori, la tradizione di Palestrina e Gabrieli assume tinte seicentesche per animarsi di tensioni che attraversano la storia – dal gregoriano a Monteverdi fino a Stravinskij – raggiungendo di slancio il cuore della contemporaneità . Ma in questa breve incursione di Petrassi nel mondo dell’opera confluiscono anche le esperienze dei balletti la
Follia di Orlando(1943) e il
Ritratto di Don Chisciotte(1947), nati dalla collaborazione con il coregorafo Aurelio Milloss, e le musiche composte per il cinema, in particolare per il film
Riso amarodi Giuseppe De Santis (1950).
Petrassi condivide il rapporto problematico del nostro tempo con il genere operistico e addirittura ne anticipa certi nodi profondi, che rischieranno di annientarlo nei decenni successivi. Prima di scegliere il silenzio, offre però un approccio simbolicamente propositivo, anche se, sia la pessimistica riflessione di stampo esistenzialista sottesa al soggetto del pittore e scrittore Toti Scialoja, sia la scelta di privare le voci maschili, parrebbero alludere all’impossibilità , per la rappresentazione teatrale, di continuare a esistere. Ma il rigoroso, solidissimo impianto polifonico strumentale da un lato, e la centralità espressiva, eterea e quasi ancestrale, del coro femminile dall’altro, risolvono in modo sostanzialmente affermativo questo apparente vicolo cieco. Lì, nella sostanza costruttiva di un’antica sapienza artigianale e creativa, tramandata e tramandabile, c’è una delle possibili risposte all’angosciosa interrogazione che la vicenda narrata pone all’arte e alla scienza del nostro secolo. Toti Scialoja, infatti, ricostruisce l’accadimento (un tentativo di volo dalla Tour Eiffel, con una sorta di vestito-paracadute, avvenuto nei primissimi anni del Novecento e tragicamente fallito) tenendo conto, se pur indirettamente, di averlo scoperto attraverso un agghiacciante documentario. La cinepresa, spiando il fatto, l’ha consegnato all’ingordigia spettacolare di un pubblico solo più vasto ma del tutto simile a quello effettivamente presente, affamato di sensazioni violente. L’inventore si fa così personaggio di statura mitica e tragica nella sua coerenza autodistruttiva, inesorabilmente insensato tra il cinismo dei cronisti e la parossistica eccitazione degli spettatori.
La rielaborazione di procedimenti atonali e dodecafonici pone in luce l’avventurarsi sicuro di Petrassi in un campo di scrittura sperimentale quanto coerente, dove il coro spesso si fa interprete di una possibile simpatia per i pensieri dell’inventore o per la lucidità pietosa del vecchio custode (di una surreale «torre metallica scheletrica»). L’arco formale ripercorre alcuni luoghi tipici della tradizione teatrale e strumentale (come la passacaglia dell’osservatore, i concertati, l’arioso dell’inventore o il finale in stile madrigalistico), aprendoli però all’andamento instabile disegnato dalle voci maschili, che si piegano, duttilmente, ai più vari modi di emissione e di intonazione, che vanno dal parlato, attraverso loSprechgesang, al canto vero e proprio. Nell’intensissima aria dell’inventore, ad esempio, la partitura prescrive che «i passaggi dal canto al parlato, e viceversa, dovranno risultare del tutto naturali». Al recitativo arioso del custode, tormentato dalla tragica coscienza di ciò che sarà , si contrappone l’enfasi espressiva della celebrazione dell’osservatore, che si lancia verso una graduale ascensione, su un efficacissimo basso ostinato dell’orchestra, che culmina nella proclamazione «E vincerete l’aria, darete agli uomini il dono dell’aria». Il coro, comunque, svolge una funzione affettiva e catartica rispetto a una vicenda straniante, intepretando lo sgomento dell’uomo moderno, solo, in un mondo ostile, alla disperata ricerca di un epilogo eroico che sa già essere destinato a concludersi nel nulla.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi