L’oroè un dramma sociale, laico: Pizzetti non attinge questa volta a vicende di ispirazione biblica, o desunte da cronache medioevali o dalla storia; si dedica invece alla composizione di un dramma completamente di sua invenzione, ambientato in un luogo fantastico, senza una precisa collocazione temporale. Al centro dell’attenzione è la conflittualità provocata negli uomini dalla sete di potere e dalla bramosia di ricchezza. Anche oggi, come sempre, tale conflittualità esiste, e questa allusione al presente (vi sono fabbriche e officine, né mancano riflessioni sociologiche) è un fatto nuovo nella produzione teatrale di Pizzetti.
Atto primo. Sull’altipiano di Carpineta, in epoca imprecisabile, presso il campo di Fontovina. In un pomeriggio di luglio consiglieri e contadini si ritrovano per discutere dei nuovi sistemi di lavorazione adottati da Giovanni de’ Neri nella sua azienda agricola. Quando il clima si surriscalda, Giovanni interviene e cerca di sedare il gruppo affermando di aver agito nell’interesse di tutti. L’umore cambia improvvisamente all’arrivo di Martino, il quale racconta della scoperta di tracce d’oro al Pian dei Cerri. I contadini, eccitati dall’idea di una facile ricchezza, desiderano ora potersi dedicare alla ricerca dell’oro con l’aiuto dello stesso padrone. Giovanni acconsente malgrado Cristina sia oppressa da tristi presagi e lo inviti a lasciare il paese.
Atto secondo. Pian dei Cerri. I cercatori d’oro si sono accampati vicino al luogo dei primi ritrovamenti, ma le loro ricerche continuano a dare esito infruttuoso. Malumore e sospetti reciproci, soprattutto nei confronti del loro capo, cominciano a dilagare. Giovanni ha in effetti trovato un ricco giacimento in una grotta e si mostra indeciso sul comportamento da tenere nei confronti dei contadini. Preoccupata da questo atteggiamento, Cristina invita ancora una volta il marito a rinunciare all’ossessione della ricchezza, ma il suo appello rimane inascoltato. Si allontana desolata. Poco dopo si ode il fragore di una deflagrazione: Cristina ha fatto brillare le mine nella grotta, seppellendo per sempre il giacimento d’oro.
Atto terzo. Campo di Fontovina. Giovanni, dopo essere stato assalito e insultato dalla sua gente, è ormai deciso a seguire il consiglio della moglie; invano sua madre tenta di dissuaderlo. Giunge in quel momento un gruppo di contadini: porta Cristina, estratta dalle macerie, morente. La donna supplica il marito di rimanere e il loro figlioletto muto, presente alla scena, riacquista la parola in seguito alla forte emozione. Cristina muore infine serena, perché il suo sacrificio ha permesso il ritorno della concordia fra la gente della sua terra.
Primo lavoro del compositore rappresentato nel dopoguerra,L’oroè stato composto fra il 1939 e il 1942 (la stesura del libretto era stata portata a compimento nel biennio 1938-39). Gli anni della composizione appartengono dunque al periodo centrale della produzione pizzettiana, quello della cosiddetta ‘crisi’, della fatica creativa, dei risultati giudicati discutibili anche dal gruppo dei più fedeli estimatori (Orsèolo, 1928-35;Vanna Lupa, 1943-47). Pregio principale dell’opera rimane la scrittura corale, pensata polifonicamente: il coro assume dimensione protagonistica, si fa voce di una folla che partecipa, decide, riflette, commenta. Vive un ruolo centrale e lo si coglie fin dalla grande pagina d’apertura del dramma. Con la produzione precedente l’opera condivide l’uso del declamato e di una trama leitmotivica, le due vie attraverso cui prende corpo il divenire del dramma. I punti salienti sono sottolineati da forme chiuse (come i duetti ‘d’amore’ e il racconto di Giovanni nel secondo atto), o da frasi ed episodi intensamente lirici, dai contorni definiti. Di questa seconda natura sono i passi costruiti sulle ultime parole di Cristina («Forse un giorno verrà ...») e sulle ultime frasi di Giovanni («Ma domani mattina ognuno torni ai campi...»).
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi