Felice compositore di opere comiche e di alcune opere serie accolte con favore, grazie anche alla collaborazione con il castrato Gaspare Pacchierotti, Bertoni ottenne un grande successo mettendo in musica l’
Orfeocalzabigiano per la terza volta dopo Gluck (1762) e Antonio Tozzi (1775). Questa, che fu la sua unica opera pubblicata, venne allestita nei teatri di tutta Europa per tutto l’ultimo quarto di secolo con due produzioni rilevanti: quella di Reichardt, assai rimaneggiata, per Berlino e quella di Haydn per Eszterháza, entrambe del 1788. Il successo fu un poco offuscato dall’accusa di plagio lanciata dai gluckisti parigini. I debiti, però, erano reciproci: Gluck aveva impiegato l’aria di bravura “So’ che dal ciel discende” dal
Tancredidi Bertoni (Torino 1766) per il finale del primo atto della versione francese dell’
Orfeo; Bertoni, dal canto suo, riconobbe, nella prefazione alla seconda edizione dell’
Orfeo, di aver avuto presente la partitura di Gluck durante la composizione dell’opera. Vistose sono le somiglianze, già notate da Berlioz, nelle scene infernali dei due autori e nei grandi cori omofonici e sillabici. Più libertà dimostra Bertoni nelle arie, che spesso abbrevia, facendole precedere da recitativi e orchestrandole alla maniera italiana, come nel lamento di Orfeo nel terzo atto (“Che farò senza Euridice”), che è accompagnato da oboi e corni oltre che dagli archi. L’orchestrazione è più povera rispetto a quella gluckiana ed è limitata all’organico dell’opera veneziana: due oboi, due corni, archi, basso continuo e arpa, quando disponibile, per il secondo atto. Fedele alle prescrizioni dei vati dell’opera riformata Calzabigi e Algarotti, l’autore impiega sempre il recitativo accompagnato, con l’aggiunta di un oboe agli archi.
Fonte:
Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi