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Olimpiade, L’
Dramma per musica in tre atti di Pietro Metastasio
Musica di Giovanni Battista Pergolesi 1710-1736
Prima rappresentazione: Roma, Teatro di Tordinona, gennaio 1735

Personaggi
Vocalità
Alcandro
Contralto
Aminta
Tenore
Argene
Soprano
Aristea
Soprano
Clistene
Tenore
Licida
Soprano
Megacle
Soprano
un sacerdote
Mimo
Note
La crescente notorietà di Pergolesi lo condusse alle scene romane nel carnevale del 1735, quando vennero rappresentate siaLa serva padrona, al Teatro Valle, cheL’Olimpiade, al Teatro di Tordinona, un’istituzione di proprietà della Camera apostolica. La precaria situazione finanziaria in cui versava il teatro, da poco riaperto, venne a influire negativamente sull’allestimento. Si dovette, ad esempio, fare a meno del coro; era inoltre la prima opera della stagione, per la quale venivano tradizionalmente profuse meno cure. I cantanti reclutati provenivano dal servizio del principe di Hessen-Darmstadt (il castrato Mariano Nicolini e il tenore Giovanni Battista Pinacci, a interpretare rispettivamente Aristea e Clistene) e dalla Cappella sistina (il Megacle di Domenico Ricci). Oltre a Ricci e Nicolini, un terzo castrato soprano era Francesco Bilancioni, interprete della parte di Licida. Per tutto il Settecento e il secolo seguente è circolata la leggenda – tuttora non verificabile – del fiasco della ‘prima’, secondo quanto riferito da un collega e concorrente di Pergolesi, Egidio Duni, che nel proprio resoconto al francese Grétry prendeva le distanze dalla condanna decretata dal pubblico, motivando quest’ultima con ragioni estetiche (l’eccessiva raffinatezza della partitura di Pergolesi). Comunque sia, l’opera fu per lungo tempo la più nota intonazione del dramma metastasiano, diventando la base di numerosi pasticci, e uno dei lavori più conosciuti dell’autore (per il soggetto ?L’Olimpiadedi Vivaldi). Colpisce all’ascolto, al di là di ogni dislivello tra i diversi numeri della partitura, il carattere sostanzialmente unitario dell’invenzione musicale: una tonalità di cordiale, gioiosa freschezza spira da ogni singola pagina dell’opera, propagandosi anche alle arie dei personaggi minori e persino alla marcia del terzo atto, proponendo un’interpretazione del testo del tutto congeniale alla poesia metastasiana e all’esaltazione del binomio bellezza-gioventù, peculiare di questo dramma. Circoscritti e poco numerosi sono i momenti ‘patetici’ della partitura, che risolve anche le situazioni emotivamente più laceranti con una grazia perfettamente aderente al livello espressivo medio dei versi del poeta, trattati con straordinaria sensibilità per la declamazione (Strohm). Il colore festivo di diverse pagine è amplificato dalla presenza di ben quattro suonatori di ottoni (due trombe e due corni da caccia), impiegati nella sinfonia – in una chiassosa animazione nel primo tempo – e in diverse arie. Una prima aria di grande impatto fonico è “Quel destrier, che all’albergo è vicinoâ€, espressione dell’incoercibile ansia di successo con cui Licida si presenta al pubblico, esaltato nella sua superbia proprio dalla grandiosità del volume orchestrale. Il rutilante splendore dei fiati accompagna anche l’aria con cui lo stesso Licida termina, nel più totale e drammatico sconcerto, il secondo atto, “Gemo in un punto e fremoâ€, in cui la voce compete nella concitazione della propria parte con un’orchestra memore dei clamori della sinfonia. Nuovi fragori con funzione descrittiva (le colorature della voce e l’inquietante pulsare dei bassi) verranno evocati dall’aria di paragone “Torbido in volto, e neroâ€, una delle cinque mutuate dall’Adriano in Siriadi Pergolesi stesso, rappresentato a Napoli nell’autunno del 1734, e unica ad aver conservato immutato il testo non metastasiano dell’opera originaria. Ben più peso ha però ilcotésentimentale del soggetto: in posizione isolata è Argene, la cui breve sortita nell’atmosfera pastorale della siciliana “Oh care selve! oh cara†(senza il coro previsto da Metastasio) esprime, già nel calore corelliano degli archi, l’intensa, dolorosa ‘nostalgia’ (Bianconi) dell’io comunicata alla Natura. La coppia Aristea-Megacle parla invece un linguaggio diverso, retoricamente medio e di estrazione tutta napoletana. Emblematico è a questo proposito il duetto “Ne’ giorni tuoi felici†che chiude il secondo atto, celeberrimo per tutto il Settecento. L’immediatezza della comunicazione dei raffinati versi metastasiani si rispecchia nella simmetria e nella regolarità della musica, appena increspata da gesti che tradiscono l’interno sgomento dei protagonisti. Soluzioni altrettanto (genialmente) semplici sono alla base dell’acclamata aria di Megacle “Se cerca, se dice†(tradizionalmente ritenuta la migliore intonazione che il testo abbia mai avuto), cui Stendhal avrebbe dedicato un’attenta, commossa analisi. Un elementare motivo di tre note viene assecondato da un accompagnamento orchestrale altrettanto essenziale, che garantisce l’assoluto predominio della voce. Il risultato di questi gesti, solo apparentemente scontati, è straordinario, se si considera la carica drammatica che si concentra nella declamazione intonata del testo (e nelle sue pause) fino al climax finale che prevede la ripresa irregolare dell’intero testo dell’aria in un Presto di crescente temperatura emotiva.Pendantdrammatico all’addio per procura di Megacle è la successiva aria di Aristea “Tu me da me dividiâ€, in cui la disperazione della voce è potenziata da una scrittura grandiosamente sinfonica nell’accompagnamento orchestrale. Un tono più pacato e misurato è riscontrabile nel suadente splendore melodico di “Grandi, è ver, son le tue pene†(Aristea) o nel disteso paesaggio sonoro di “L’infelice in questo stato†(Alcandro). Il sapore del linguaggio buffo, con i suoi gesti melodici pregnanti e assertivi, traspare invece dalle riflessioni sentenziose di Argene (“Più non si trovanoâ€), mentre capolavori di pittura sonora sono la suggestiva aria del sonno “Mentre dormi, Amor fomenti†(Licida) impreziosita da una breve ma intensa sezione contrastante che descrive con mezzi musicali il rallentare delle acque e l’immobilità del vento e l’evocativa aria di Clistene “Non so donde vieneâ€, in grado di suggerire con il disegno etereo dei violini il «tenero affetto», il «moto che ignoto» nasce nel cuore dell’ignaro padre.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi

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