Con quest’opera Orff suggellò la sua trilogia classica, derivando dai precedenti
Antigonaee
Oedypus der Tyrannalcune conseguenze estreme che ne sviluppano con coerenza i presupposti estetici, facendo convergere nella loro evoluzione una ricerca timbrico-ritmica ormai più che trentennale e la sua personale visione della tragedia greca. Il testo di Eschilo non poteva avvalersi della parafrasi mediatrice di Hölderlin; non avendo trovato nessuna traduzione del valore di quelle utilizzate per i due lavori sofoclei, Orff stabilì di attenersi all’originale greco. Inoltre, dal momento che alcuni filologi interpellati sul problema dell’interpretazione metrica fornirono opinioni discordanti, il compositore si risolse per una libera scansione ritmica, indipendente da ogni regola e legata solo al diverso spirito di ciascuna sezione. Declamare versi in greco antico significava naturalmente farsi comprendere da pochi eletti: eppure proprio l’adozione di una lingua morta consentì a Orff di dare compiutezza risolutiva alla sua parabola artistica. Per rendere comprensibile il contenuto della tragedia, infatti, viene accentuata la visualizzazione mimico-coreutica degli eventi narrati, esplicitando la gestualità stilizzata che permea tutto il teatro di Orff; la stessa ossessiva ripetizione ritmica richiama a moduli di danza popolare. Come nell’
Oedypus, anche in
PrometheusOrff plasma la voce ora su un parlato secco, ora su una declamazione più morbida, risalendo poi attraverso gradazioni impercettibili fino a melismi e a sezioni più ariose; anche l’apparato delle didascalie si arricchisce, e la volontà di rendere comprensibile agli spettatori il dipanarsi degli eventi suggerisce a Orff indicazioni molto frequenti e precise, il cui carattere quasi attorale richiama la duttilità icastica della ballata. L’incontro (avvenuto trent’anni prima) con la ballerina di scuola dalcroziana Dorothee Günther aveva stimolato in Orff il desiderio di creare un teatro in cui gesto e musica si equilibrassero alla pari, scaturendo non da reciproca ancillarità , ma da una comune radice spirituale; e la musica impiegata in tale contesto doveva concentrarsi essenzialmente sul ritmo, vivificandolo con svariati accorgimenti timbrici. Di qui era germogliato l’interesse orffiano per gli strumenti esotici, selezionati sempre di preferenza fra le percussioni; con
Prometheusquesta ricerca tocca il suo traguardo, inglobando tamburi giapponesi (l’
o-daikoche fa sentire i tre rulli d’esordio al levar del sipario, o il
taikodal timbro nitido e asciutto, impiegato per le spigolosità ritmiche della profezia di Prometeo a Io), i sonagli (tra cui la
wasambaafricana, che incornicia le entrate e le sortite di Io) o le percussioni arabe. Orff non si ferma qui, ma sfrutta con dovizia il ricorso ai
clusters, che dilagano da quattro pianoforti a quattro mani come sintomi dell’informe primordiale. Il coro delle ninfe Oceanine si avvale invece della registrazione su nastro magnetico, con un modernismo che è parso testimonianza di opportunistici tributi alle avanguardie. In realtà l’evoluzione timbrica dello
Schlagwerk, ossia del nucleo di percussioni fondamentale in tutta la produzione di Orff, giustifica pienamente questa incursione nelle tecniche più radicali della Nuova Musica, sentita non come ibrido annessionismo, ma piuttosto quale naturale coronamento di uno sviluppo organico. L’adozione di strumenti giapponesi, arabi, africani nel complesso orchestrale decreta poi l’avvento simbolico di un autentico
theatrum mundi, a cui collaborano svariate tradizioni musicali; e a questo ampliamento sincronico verso civiltà diverse fa riscontro lo sguardo idealmente diacronico dello stesso mito prescelto, quel Prometeo che era stato oggetto di riflessione lungo l’intero cammino artistico europeo, da Goethe a Shelley a Gide, senza escludere Beethoven, Liszt e Fauré; e il discorso potrebbe ampliarsi ulteriormente, se si ricordasse che il mitologema del furto originario del fuoco è comune anche alle culture extraeuropee.
Fonte:
Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi