In un suo scritto Egk riferì l’opinione di George Bernard Shaw, secondo il quale
Peer Gyntaveva tutte le carte in regola per adattarsi in maniera ottimale a una trasposizione operistica. Sfrondato delle digressioni epiche e delle venature simboliste, il testo di Ibsen venne organizzato da Egk in nove
tableauxriassuntivi, alcuni ambientati nelle terre del nord, altri in America centrale, fino a inabissarsi nel regno dei folletti, sordido meandro che pare situato nei recessi nibelungici della terra.
Atto primo. La filosofia di Peer Gynt, emblema dell’ignavo egocentrico, si riassume nella frase pronunciata nel quadro d’apertura: «Io faccio quel che voglio». Seguendo quest’etica della ‘non scelta’, Peer seduce e abbandona la sposa dell’amico Mads e finisce nei lacci dei Troll, i folletti. Costoro (per Egk non reminiscenze fiabesche, bensì allegorie di tutto ciò che nel mondo presente vi è di meschino e moralmente abietto) vorrebbero incoronare Peer loro sovrano, ma il giovane rifiuta inorridito quando capisce che dovrebbe sottoporsi a un’improvvisata chirurgia facciale per diventare identico ai malvagi spiritelli. Come Tannhäuser, Peer grida il nome di Solveig, la fanciulla che lo ama, e si ritrova salvo e lontano dal regno maledetto.
Atto secondo. Soccomberà presto, però, all’egoismo personale e alle visioni tentatrici con cui i Troll continuano a sedurlo: il ricco Peer che ritroviamo nell’America centrale è attento unicamente al proprio tornaconto e frequenta losche taverne, in cui si lascia irretire da una lasciva danzatrice, che somiglia stranamente alla figlia del vecchio folletto.
Atto terzo. Peer, toccato al cuore dalla nostalgia, fa ritorno al suo paese, dove tutti coloro che l’hanno amato e che ha fatto soffrire sono morti; uno sconosciuto lo riconduce all’abominato regno sotterraneo, dove i Troll sono decisi a incoronarlo finalmente loro re. Unica speranza di salvezza da questa perpetua condanna sarebbe la scoperta di un essere umano che ancora ami, perdoni e attenda Peer. Quando questi è ormai deciso ad accettare il proprio castigo, per espiare le malvagità commesse, si ode il canto di Solveig che benedice il suo amore lontano: l’opera termina con la tenera melodia di Solveig che culla Peer finalmente tornato, in una sommessa atmosfera di pacificazione interiore.
Ai quadri animati dai folletti Egk riserva l’ambigua commistione di celesta, arpa e vibrafono, arricchendola con le strida selvagge degli ottoni e il borbottio sinistro di timpani e tamburi; il linguaggio si piega a un’impressionante duttilità di accenti, dal lamento cantilenante di Aase, madre di Peer, al corale parodistico che funge da inno dei Troll, dai ritmi rigidi e martellanti di Peer alle flessuosità rapaci degli spiriti. La parte di Solveig viene contraddistinta da una singolare purezza, sia timbrica sia tonale, e per lei Egk intesse melodie di sapore quasiempfindsam. Con questo mondo incontaminato (e provocatoriamente diatonico) contrastano i valzer indiavolati e i cancan di foggia latinoamericana, o il deliberatoKitschdella canzone di Peer nella taverna. Il ritmo puntato e zoppicante che domina il quinto quadro, ambientato in un porto americano, riemerge come un’ossessione fino alla catarsi conclusiva; il discorso armonico resta ancorato alla tonalità , beneficiando tuttavia dei colori cangianti di una strumentazione accuratissima e di frequenti momenti ove prevalgono soluzioni armoniche bitonali.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi