Accanto ad
Alfonso und Estrella e a
Fierrabras,
Die Zauberharfe è oggi una delle opere teatrali schubertiane più eseguite, o, quantomeno, suoi allestimenti circolano con una certa regolarità , uscendo anche dai confini della Germania e dell’Austria (ricordiamo la rappresentazione bolognese del 1983). A questo lavoro, in particolare, è connessa una piccola curiosità : la sua ouverture venne, non si sa quando né per quale motivo, sostituita a quella che doveva aprire le musiche di scena per
Rosamunde e finì quindi per conquistarsi una personale popolarità sradicata dal contesto originario. Solo recentemente si è dimostrato che la vera collocazione della presunta ouverture di
Rosamunde era invece
Die Zauberharfe, districando così i nodi di un equivoco che era andato complicandosi ancor più a causa della circolazione di una versione di
Alfonso und Estrella contenente a sua volta la stessa ouverture; fra l’altro, il testo completo di quest’opera-melologo è andato perso ed è stato possibile ricostruirlo solo in base alle annotazioni residue lasciate da Schubert sulla partitura. Per melologo si intende la soluzione del rapporto musica-parola teorizzata e sperimentata per la prima volta da Jean Jacques Rousseau (il cui
Pigmalion è del 1770), ma rimasta abbastanza inconsueta nella pratica operistica: anziché cantare, e magari alternare alle arie e ai cori le sezioni parlate o in stile di recitativo, ci si limita a declamare il testo, in modo che l’orchestra accompagni la parola recitata. Cherubini era ricorso al melologo in una scena della
Medea, Beethoven aveva fatto altrettanto nel
Fidelio e non troppo di rado si incontravano esempi analoghi nell’opera francese; ma l’espediente restava limitato a momenti circoscritti e di intensa drammaticità . Il fatto che l’intera
Zauberharfe sia impostata sul principio del melologo conferma le deduzioni che si traggono dalla conoscenza del teatro schubertiano: innanzitutto il compositore aveva eletto a suoi modelli – oltre a Gluck e a Mozart – Cherubini e Spontini, profeti della grande opera tragica cui egli stesso ambiva di arrivare, e ricorreva quindi a un espediente drammatico che essi soli, pur nel loro parco uso, avevano immortalato in quest’ambito. Nello stesso tempo, però, il melologo furoreggiava nei teatri popolari dell’epoca come struttura privilegiata di ‘drammoni’ a effetto, che non mancavano di strabiliare il pubblico; dopo il successo del francese Pixérécourt (che lo chiamava
mélodrame) il melologo si era trapiantato infatti anche nei paesi tedeschi con la funzione ancillare di colonna sonora. I caparbi approcci operistici di Schubert non vanno considerati come triste esempio di mancanza di autocritica, ma come disperato tentativo di sottrarsi alle ristrettezze economiche tramite la notorietà che solo un successo operistico poteva assicurare; e in questa prospettiva non stupisce che l’occhio di Schubert sia caduto sull’ennesimo ‘polpettone’ alla moda e per giunta su una formula estetica consacrata sì da grandi autori, ma anche gradita, pur sotto una veste degradata, al pubblico contemporaneo.
Atto primo. Dall’antefatto apprendiamo che Melinde ha abbandonato da dieci anni Arnulf perché questi ha voluto far salire il figlio su un trono che spettava legittimamente alla nipote Ida. Arnulf, però, ha perso ogni traccia del figlio, che in realtà , sotto il nome di Palmerin, veste mentite spoglie di trovatore ed è in possesso di un’arpa magica affidatagli dalla madre. All’inizio dell’opera, mentre gli amici festeggiano una vittoria canora di Palmerin, Arnulf prepara un assalto contro Melinde; la fata, messa in guardia da Sutur, è talmente esasperata contro il marito da dire incautamente al genio del fuoco che, piuttosto che accettare una riconciliazione con Arnulf, si darà a Sutur stesso; intanto, smarritasi in un bosco incantato, Ida libera una colomba dagli artigli di un’aquila e interpreta la buona azione come presagio consolatorio.
Atto secondo. In sogno Arnulf si ritrova nel castello di Melinde, che gli chiede perché si accanisca contro di lei; quando Arnulf le replica che la odierà sempre per avergli rapito il figlio Melinde, lo maledice e sotto quest’impressione Arnulf si risveglia, deciso più che mai a muovere in armi contro la consorte.
Atto terzo. I suoi soldati sono però impotenti di fronte alle arti magiche con cui la fata aggira il loro attacco; tra le suppliche e le lacrime degli astanti, soprattutto di Ida, Arnulf finisce per abbassare la spada con cui voleva ferire Melinde, offertasi ai suoi colpi; e quando ella gli rivela che Palmerin è il figlio perduto, più nulla si oppone alla riconciliazione; solo Sutur si presenta, esigendo per sé Melinde; ma il suono dell’arpa magica sotto le mani di Ida fa spalancare l’abisso sotto i suoi piedi e il malvagio sprofonda.
Insieme a Die Zwillingsbrüder (Vienna), Die Zauberharfe è l’unica opera di Schubert rappresentata vivente l’autore; se si eccettua qualche isolato apprezzamento nei confronti della musicalità di Schubert, la reazione della critica fu negativa, e quella del pubblico non dovette essere molto più incoraggiante, tanto che dopo poche repliche l’opera fu tolta dal cartellone. Non giova naturalmente all’ispirazione schubertiana la massiccia presenza di soldati e cavalieri, per i quali scrive impacciatissime marce, quanto mai estranee alle sue corde espressive; come al solito, la partitura contiene spunti bellissimi, fiori smarriti nella vacua opulenza degli artifici teatrali. Bisognerebbe sempre tenere presente come Schubert si illudesse di potersi servire del canale operistico per far giungere al pubblico i suoi Lieder e i suoi brani corali; è sotto questa dimensione ‘utopistico-cameristica’ che il compositore affronta le insidie del confronto teatrale, destinato a priori al fallimento. Prodighe di pagine commoventi in senso assoluto, ossia se estrapolate dal contesto, le opere di Schubert mancano del più elementare nerbo teatrale e di ogni tensione drammatica, a conferma del talento squisitamente lirico e introspettivo dell’autore; eppure proprio l’ingenua ricerca di effetti spettacolari, volti a impressionare il pubblico, compromise, per le complicate acrobazie registiche che richiedeva, le esili possibilità di successo delle due sole opere che Schubert sia riuscito a vedere allestite.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi