Quando Henze affronta per la prima volta l’opera lirica sceglie la storia nota, appassionata e romantica di Manon Lescaut, già sfruttata da Auber, Massenet, Puccini (solo per citare i più famosi). Non è un caso; appassionato di balletto (e tra l’altro direttore della stagione di danza a Wiesbaden), non cerca un soggetto astratto o statico, come molti dei musicisti della sua generazione: la sua linea estetica è in qualche modo rivelata da questa ‘attrazione’ per un racconto intenso e passionale. Certamente i dodici quadri concepiti da Grete Weil tratteggiano un’indagine esistenziale carica di inquietanti e moderni interrogativi; sembra di essere in un film di Antonioni, dove la difficoltà della comunicazione diventa anche problema linguistico e assorbe in un indistinto liquido amniotico la realtà circostante. Solo che quel liquido, con il suo irresistibile potere rassicurante e ingannatorio, si tinge di depressione e paura, fino a trasformarsi in sangue, violenza e tragedia. E allora ritroviamo un sospiro decadente ed esausto in un paesaggio affettivo dilaniato e moderno, come nei romanzi e nelle sceneggiature di Pasolini. L’urlo di dolore non è espressionistico, ma interiore e ripiegato. In questo consiste la modernità di Henze: nell’aver colto, prima di altri musicisti ma in sintonia con le tendenze della letteratura e del cinema a lui contemporanei, quel caratteristico profilo simbolico dei gesti, che segnala il tratto creativo d’oggi. Guardando alla storia musicale della nostra tradizione, Henze riesce ad aggiungere anfratti, a suggerire lievi scarti prospettici mai intuiti prima, a insinuare il ‘nuovo’ come sfuggente intuizione e non come dichiarata ipotesi. Ecco perché in
Boulevard Solitudeconvivono codificazioni linguistiche teoricamente lontane, come la tonalità e l’atonalità : i momenti dodecafonici rappresentano l’anelito a una nuova ipotesi di vita e di civiltà , le parti tonali la persistenza di un vecchio mondo in decadenza. Ed è significativo che questa distinzione venga poi minata, sul piano creativo, proprio dall’estrema integrazione tra le due componenti nell’arco formale complessivo (anticipando, fra l’altro, i futuri e più maturi frutti della sua estetica); il che, all’ascolto, smentisce quello stesso presupposto, inserendo con grande spregiudicatezza una contaminazione linguistica in quegli anni convenzionalmente condannata come retriva. Dunque Henze non rinnega – né con l’indifferenza, né con il distacco – le ricerche linguistiche della prima metà del secolo, ma comincia già , in questa sua prima opera, a rivitalizzarle in modo estremamente personale. Henze non procede per ‘negazione’, ma esprimendo la poesia della presenza e dell’assenza – della storia, dei linguaggi, del loro continuo trasformarsi e rivivere – senza spiritualistiche, astratte e neopositivistiche fratture. I quadri sono collegati da intermezzi strumentali che anticipano, riflettono e aggirano il succedersi delle situazioni teatrali; spesso interviene la dimensione corporea della danza e talvolta i cantanti recitano. La contaminazione musicale si riflette, quindi, anche nell’intreccio delle dimensioni espressive extramusicali, dove la concretezza del
corpodiventa simbolicamente il fulcro di una personalissima ricerca creativa.
Fonte:
Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi