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Huguenots, Les
Grand-opéra in cinque atti di Eugène Scribe
Musica di Giacomo Meyerbeer 1791-1864
Prima rappresentazione: Parigi, Opéra, 29 febbraio 1836

Personaggi
Vocalità
Bois-Rosé
Tenore
De Cossé
Tenore
De Méru
Basso
De Retz
Basso
De Tavannes
Tenore
De Thoré
Tenore
due dame d’onore
Contralto
il conte di Nevers
Basso
il conte di Saint-Bris
Basso
Léonard
Tenore
Marcel
Basso
Marguerite de Valois
Soprano
Maurevert
Basso
Raoul de Nangis
Tenore
un arciere
Baritono
un monaco
Basso
Urbain
Soprano
Valentine
Soprano
zingara (2)
Soprano
Note
Dopo l’enorme successo di Robert le Diable, Meyerbeer si accostò nuovamente al genere del grand-opéra, ma passò dalle atmosfere fantastiche alla storia romanzata, secondo l’esempio della Muette de Portici di Auber (1828, su libretto di Scribe) e del Guillaume Tell di Rossini (1829). Venne scelto quale argomento il contrasto tra cattolici e protestanti in Francia, culminato nella strage della notte di san Bartolomeo, il 23 agosto 1572. Un soggetto allora piuttosto in voga: nel 1829 infatti Prosper Mérimée aveva pubblicato un racconto su questo tema, Chronique du règne de Charles IX, da cui era stato tratto l’opéra-comique di Hérold Le pré-aux-clercs, rappresentato con successo all’Opéra nel 1832. Proprio negli ultimi mesi del 1832 venne messo a punto il progetto degli Ugonotti, come testimonia il contratto firmato da Meyerbeer col potente direttore dell’Opéra, Louis Véron, il 23 ottobre di quell’anno. La gestazione dell’opera, comunque, fu lunga e complessa, come del resto quella di tutti i grands-opéras del compositore. Nel luglio 1834 l’opera era stata in gran parte abbozzata, ma Meyerbeer non era del tutto soddisfatto del lavoro di Scribe e, partendo da Parigi per la Germania, gli aveva fatto notare: «la vostra realizzazione della parte di Marcel non risponde al carattere musicale di cui io vi avevo dato l’idea, e inoltre vi sono troppi pezzi senza voci femminili» (lettera del 2 luglio 1834). E dunque il musicista approfittò di un viaggio in Italia, nel corso di quella stessa estate, per contattare il suo vecchio librettista Gaetano Rossi e chiedergli di apportare alcune modifiche, che poi presentò a Scribe come proprie; inoltre, in un secondo momento, chiese la collaborazione del poeta Emile Deschamps, il cui effettivo contributo non è stato però ben chiarito. Le variazioni più importanti riguardavano appunto il personaggio di Marcel, il vecchio servo del protagonista Raoul, soldato coraggioso e fervente ugonotto, la cui figura assunse un ruolo sempre più centrale. Meyerbeer lo considerava il suo personaggio più importante: «La parte di Marcel ha più valore di tutta l’altra musica che ho composto nella mia vita, Robert compreso. Non so se verrà capita», scriveva alla moglie nel luglio 1835. Questo particolare è di grande importanza per la valutazione complessiva dell’opera. Si è accusato Meyerbeer, come altri compositori di grands-opéras, di utilizzare le vicende storiche solo per aggiungere un lussuoso fondale ai soliti intrecci amorosi. Gli ostacoli alla realizzazione dell’amore dei due protagonisti non sono più i conflitti familiari o le circostanze avverse, ma i grandi fatti della Storia, come la rivolta di Masaniello nella Napoli del Seicento (Muette), o la lotta di liberazione degli Svizzeri (Guillaume Tell). Considerare il personaggio di Marcel il più importante dell’intera opera significa ribaltare questa prospettiva. Marcel incarna la forza delle proprie convinzioni morali e religiose, la fedeltà agli ideali, ma il suo personaggio ha un’interessante evoluzione nel corso dei cinque atti: la sua fede è dapprima colorata di fanatismo, poi trasfigurata dall’amore paterno per Raoul, infine ascende a un superiore misticismo, fino al martirio; nel terzetto dell’ultimo atto egli rappresenta la vera religiosità opposta al fanatismo. E questo fa sì che Les Huguenots, secondo una felice formula critica, sia un «dramma d’idee», nel quale «la Storia è il tema stesso, e non un mero accessorio, dell’azione» (Döhring). Meyerbeer incarna la sua idea di Marcel nel corale luterano ‘Ein feste Burg’, le cui trasformazioni riflettono quelle del personaggio: su di esso è costruito il preludio iniziale.

Atto primo. Nel palazzo del conte di Nevers, nobiluomo cattolico, dove è in corso un allegro festino. Nevers annuncia che si attende ancora un commensale, il gentiluomo protestante Raoul de Nangis, e allo stupore dei suoi compagni ribatte che il re Carlo vuole l’amicizia tra le due confessioni. Quando Raoul arriva tutti, colpiti dal suo mesto aspetto, cercano di coinvolgerlo nel loro inno al piacere (“Bonheur de la tableâ€), e alla fine il giovane si lascia andare a confidare l’amore che lo lega a una giovinetta sconosciuta, da lui salvata casualmente, in una romanza accompagnata da un assolo di viola (“Plus blanche que la blanche hermineâ€). L’appassionata confessione di Raoul è interrotta dall’arrivo del suo vecchio servo Marcel, austero ugonotto che si duole di trovarlo in tale compagnia, e innalza a Dio una preghiera per il suo padrone sul corale ‘Ein feste Burg’; poi, a sottolineare il suo disprezzo di vecchio soldato, canta la chanson huguenote (“Piff, paffâ€), che rievoca la sconfitta cattolica di La Rochelle. Le risate degli astanti dinanzi al suo fanatismo sono interrotte dall’arrivo di un valletto, che annuncia la visita di una giovane beltà velata; Nevers si ritira per riceverla. Si tratta della sua promessa sposa, Valentine, figlia del conte di Saint-Bris, la quale, su consiglio della regina, lo implora di rompere il loro fidanzamento; egli, pur esterrefatto, non può che acconsentire. Il colloquio tra i due viene spiato dagli altri gentiluomini, e Raoul si accorge con orrore che la sconosciuta è la donna da lui amata; ma, mentre si abbandona alla disperazione, si presenta un messaggero, il paggio Urbain (“Nobles seigneurs, salutâ€), per condurlo, bendato, a un appuntamento misterioso.

Atto secondo. Nei giardini del castello di Chenonceaux, residenza della regina Margherita. In compagnia delle sue ancelle ella innalza un canto alle bellezze della Turenna e ai piaceri d’amore, opposti alle lotte che insanguinano la Francia (“O beau pays de la Touraineâ€). A Valentine che sopraggiunge rivela che le ha chiesto di rompere il suo fidanzamento per permetterle di sposare Raoul, di cui la sa innamorata. Il coro e il ballo delle damigelle che si bagnano nel fiume preparano l’arrivo di Raoul in questa sorta di paradiso terrestre: le giovani en déshabillé si prendono gioco di lui, bendato, in una scena che sembrò immorale a Schumann. Nel duetto seguente (“Beauté divine, enchanteresseâ€) Raoul, tornato a vedere, non nasconde il suo incanto dinanzi alla bellezza di Margherita che, da parte sua, resiste a stento al suo fascino. (Meyerbeer sottolinea così la leggerezza della regina, cui fa da contraltare nel quarto atto la passionalità di Valentine; malgrado le parti di entrambe – come anche quella di Urbain – siano affidate a un soprano, esiste una profonda differenza tra Valentine, soprano drammatico, e gli altri due personaggi, pensati per un soprano leggero). La regina annuncia al giovane che per lui si prepara un matrimonio che sancirà la tregua tra ugonotti e cattolici; Raoul giura eterna pace insieme a Nevers e a Saint-Bris, sopraggiunti nel frattempo, in un terzetto (cui poi si aggiunge la voce di Marcel) che alterna sezioni a piena orchestra a una parte centrale ‘a cappella’ (“Par l’honneur, par le nomâ€). Ma non appena Raoul scopre che la sposa è Valentine, da lui creduta l’amante di Nevers, si rifiuta di acconsentire, scatenando le ire dei presenti. L’atto termina con una drammatica stretta, dominata ancora una volta dal corale luterano intonato da Marcel.

Atto terzo. Parigi: sulle rive della Senna, nel Pré-aux-clercs. Il corteo nuziale di Valentine e Nevers, e la sfilata dei soldati ugonotti capitanati da Bois-Rosé, sono l’occasione per uno di quei grandi tableaux che hanno fatto la fortuna del grand-opéra, e danno a Meyerbeer la possibilità di connotare musicalmente i due gruppi, tramite le litanie intonate dalle donne cattoliche e il ‘Rataplan’ (“Prenant son sabre de bataillesâ€) intonato dai soldati ugonotti; a questi si aggiungono due zingare, per un’ulteriore nota di colore. Intanto Marcel presenta a Saint-Bris il cartello di sfida del suo padrone. Suona il segnale del coprifuoco: sulla scena, fattasi deserta, un assolo di clarinetto preannuncia l’apparizione di Valentine, angosciata per il tranello che i suoi vogliono tendere a Raoul in occasione del duello; la vista di Marcel la spinge a rivelargli la congiura, e di conseguenza il suo amore per il giovane. Questo duetto ‘notturno’, accompagnato dalla sonorità cupa di fagotti, clarinetti e corni (“Dans la nuit où seul je veilleâ€), fa da pendant a quello di Marguerite e Raoul nel secondo atto, e come quello ricalca la tipica struttura del duetto all’italiana in quattro parti: tempo d’attacco (“Dans la nuit où seul je veilleâ€), cantabile (“Ah, l’ingrat d’une offense mortelle“), tempo di mezzo (“Tu m’as compriseâ€), culminanti nella cabaletta (“Tu ne peux éprouverâ€), dove Valentine esprime tutto lo strazio del suo animo, diviso tra l’amore per Raoul e i suoi doveri di figlia – e anche di moglie – nei confronti di Nevers, che ha sposato quella stessa mattina. All’arrivo dei duellanti – che dà luogo a una delle pagine più celebri, il settimino (“En mon bon droit j’ai confianceâ€) – Marcel chiama in difesa del suo padrone un gruppo di soldati ugonotti; la lite che ne nasce è interrotta dall’arrivo di Margherita, cui Marcel rivela il tranello contro il suo padrone e addita Valentine a testimone. Raoul scopre così che la donna lo ama, e che si era recata dal conte di Nevers solo per rompere il fidanzamento; ma scopre altresì che le nozze tra i due sono state celebrate quella stessa mattina. Una marcia nuziale annuncia l’arrivo dell’imbarcazione del conte, giunto a prendere la sua sposa.

Atto quarto. Valentine è sola nei suoi appartamenti e medita sul suo amore in una romanza profondamente espressiva (“Parmi les pleursâ€); improvvisamente appare Raoul, ma il loro colloquio è interrotto dal sopraggiungere di Saint-Bris, Nevers e altri gentiluomini cattolici, lì riuniti a elaborare un piano per massacrare i protestanti. La scena della congiura e quella successiva della benedizione dei pugnali sono giustamente tra le più famose (e anche parodiate) dell’opera. Saint-Bris intona una melodia piena di forza e dignità per invitare gli amici alla strage, in nome di Dio e del re (“Pour cette cause sainteâ€), ma Nevers, solo, si rifiuta di approfittare dell’inganno per battere i nemici e spezza la sua spada, dimostrando la sua nobiltà. Saint-Bris dà ordine che sia arrestato, mentre entrano in scena tre frati, accompagnati da uno stuolo di novizi, i quali benedicono i congiurati e distribuiscono loro delle sciarpe bianche recanti l’effigie della croce. La scena raggiunge quindi il suo culmine, con i cattolici che esplodono nel grido ‘Dieu le veut’ impugnando le spade; quindi l’insieme si chiude sulle note della melodia iniziale, ripetuta da tutti i presenti. L’imponenza di questa scena di massa fa risaltare ancora di più l’intimismo del successivo duetto ‘all’italiana’ tra Raoul e Valentine, e ne accresce la drammaticità. Valentine tenta di fermare l’amato, che vorrebbe soccorrere i suoi confratelli, ed è costretta a dirgli per la prima volta che l’ama. L’estasi di Raoul, la paura e il rimorso di Valentine furono sicuramente ben presenti a Verdi mentre componeva il duetto del Ballo in maschera (1858): anche in quel caso un amore adulterino viene infine confessato in un contesto di morte e pericolo imminente, nel conflitto tra la passione e il dovere. Il “Reste, reste, je t’aime†di Valentine, sussurrato in un sospiro come “Ebben, sì, t’amo†di Amelia, dà l’avvio al fluire della passione nell’Adagio successivo (“Tu l’as ditâ€). Già in Meyerbeer, come poi in Verdi, un improvviso avvenimento esterno viene a interrompere l’idillio degli amanti: la campana che annuncia l’inizio della strage di san Bartolomeo, sottolineata da un cambiamento di tonalità. Nella stretta seguente, Raoul ribadisce il desiderio di battersi insieme ai suoi fratelli e, dopo aver trascinato Valentine dinanzi alla finestra per mostrarle i cadaveri sulle rive della Senna, fugge, abbandonandola semisvenuta. (Il duetto venne più volte rielaborato da Meyerbeer, anche su richiesta del tenore Adolphe Nourrit, che si rifiutò di cantare una precedente stesura del libretto, dalle allusioni più esplicitamente erotiche).

Atto quinto. Gran ballo all’Hôtel de Nesle, dove gli ugonotti festeggiano il matrimonio di Margherita con Enrico di Navarra. Raoul irrompe alla festa, chiamando alle armi i suoi confratelli; egli descrive l’assassinio di Coligny e la strage per le strade insanguinate di Parigi (“A la luer de leurs torchesâ€), conferendo alla scena il sapore di un ballo proteso sull’abisso. Questa scena venne quasi sempre tagliata negli allestimenti fuori di Parigi, sia per motivi di censura, sia per le difficoltà tecniche, cosicché più comunemente l’atto comincia in un cimitero protestante, con una cappella sullo sfondo; lì Raoul e Marcel, gravemente ferito, vengono raggiunti da Valentine, che spera ancora di salvare l’uomo che ama: gli reca una sciarpa bianca, protetto dalla quale potrà raggiungere gli appartamenti della regina. In cambio, tuttavia, Raoul deve abiurare la sua fede. Raoul rifiuta e Valentine, allora, in un crescendo di esaltazione, decide di abbracciare la religione protestante e chiede a Marcel di benedire la loro unione (“Ainsi je te verrai perirâ€), mentre dall’interno della chiesa si odono le donne ugonotte intonare il corale luterano. Il grande terzetto che segue è una delle pagine più alte dell’opera. Si compone di tre momenti diversi: sulle note di un clarinetto basso, strumento allora inconsueto, Marcel benedice i due amanti e chiede loro di ribadire la loro fede, mentre il coro intona nuovamente il corale (“Savez-vous qu’enâ€); il giuramento degli sposi è interrotto da scariche di fucili e dal coro degli assassini, dai ritmi triviali, al quale si contrappone ancora una volta il corale (“Abjurez, Huguenotsâ€); infine Marcel, trasfigurato in una estatica visione, intona con i due sposi all’unisono ‘Ein feste Burg’ per tre volte, e ogni volta su un grado più alto della scala. Nell’ultima scena, in una strada di Parigi, i tre protagonisti ribadiscono coraggiosamente la loro fede di fronte agli assassini, tra i quali è Saint-Bris che riconosce troppo tardi l’amata figlia; l’arrivo di Margherita, orripilata a tale vista, pone fine al massacro.

Les Huguenotsconsolidò la fama di Meyerbeer: fu una delle prime opere a raggiungere la millesima rappresentazione all’Opéra, ed ebbe una diffusione immediata in Europa e in America, anche se spesso con i tagli della censura. Se il successo di pubblico fu senza precedenti, i critici non furono unanimi nell’elogiare la partitura; anzi, intorno al suo nome si crearono due partiti. Che cosa faceva di Meyerbeer un compositore così controverso? Innanzitutto la difficoltà di classificarlo in una scuola ben precisa, poiché l’eclettismo è la sua cifra stilistica. Come ben ci informano le testimonianze critiche dell’epoca, gli si riconosceva di avere cercato una sintesi tra la melodia italiana, l’armonia tedesca e la tradizione dell’opera francese, ricca di cori e balletti. Ma tale eclettismo era un difetto agli occhi di molti: per i tedeschi Meyerbeer era un traditore e così per gli italiani, che non gli perdonarono mai di aver abbandonato i suoi esordi nel segno di Rossini. Tra i più famosi avversari di Meyerbeer furono Schumann, che dedicò a quest’opera una feroce stroncatura, e Wagner, che la giudicò «un effetto senza causa»; Berlioz invece ne fu un fiero sostenitore, e dedicò all’analisi degli Huguenots e di Robert le Diable diversi articoli, in cui elogiava in particolare la strumentazione. Meyerbeer fu il primo a impiegare taluni strumenti in teatro, quali il clarinetto basso e l’organo, e dimostrò sempre predilezione per una strumentazione sontuosa o inconsueta, ad esempio con la viola d’amore usata nella romanza di Raoul del primo atto. (Particolare curioso: il solista dell’Opéra, Chrétien Urhan, era un fervente cattolico, e aveva ottenuto dall’arcivescovo di Parigi una particolare dispensa per suonare in teatro, cosa che dà una sfumatura ironica a questa circostanza). Strumentazione elaborata e senso drammatico gli furono sempre riconosciuti, anche se i suoi detrattori lo accusarono di adoperarli per effetti ‘triviali’. La grande novità di Meyerbeer sta piuttosto nella drammaturgia, nella tecnica del tableau, il grande quadro d’insieme all’interno del quale vengono convogliati tutti i momenti del dramma, abolendo il susseguirsi di ‘numeri’ tipico dell’opera italiana. Oggi i grands-opéras non incontrano il favore del pubblico e le loro riprese sono rare, ma è difficile dare una motivazione al totale oblio in cui Meyerbeer è caduto. Influiscono di certo le difficoltà della messinscena, ma a essere cambiato a fondo è il gusto del pubblico, che probabilmente trova carente l’approfondimento psicologico dei personaggi e difficilmente è disposto ad accettare l’ampiezza monumentale di cinque lunghi atti, arricchiti dal loro contorno di balletti.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi


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