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Merope, La
Dramma per musica in tre atti di Apostolo Zeno, riveduto da Domenico Lalli
Musica di Geminiano Giacomelli 1692-1740
Prima rappresentazione: Venezia, Teatro San Giovanni Grisostomo, carnevale 1734

Personaggi
Vocalità
Anassandro
Contralto
Argia
Contralto
Epitide
Soprano
Liscisco
Soprano
Merope
Soprano
Polifonte
Tenore
Trasimede
Soprano
Note
La stagione del 1734 proposta dal Teatro San Giovanni Grisostomo, il più prestigioso di Venezia (benché non più nel suo periodo aureo), ha puntato sulla scrittura di due strapagate e apprezzatissimestardella scena: i castrati Gaetano Majorano detto Caffarelli e Carlo Broschi più noto come Farinelli. Sono gli anni in cui il successo di un’opera è decretato dai cantanti, anni in cui l’opera veneziana ha perso la sua identità travolta dalla fortuna dello stile di derivazione napoletana. Giacomelli, Maestro di cappella fra Parma e Piacenza, non è nuovo ai teatri di Venezia ed è apprezzato proprio per il suo comporre sensibile all’indirizzo partenopeo. Per il libretto viene recuperato un vecchio lavoro di Apostolo Zeno (scritto nel 1711 e allestito con la musica di Francesco Gasparini). È probabilmente il suo miglior testo per musica e appartiene ormai alla fase ‘riformata’, priva cioè di situazioni comiche, attenta alle unità aristoteliche, sensibile alla descrizione psicologica dei personaggi. Zeno, che in tal modo auspicava una rivalutazione del libretto d’opera, sortì i risultati sperati solo in parte: i suoi drammi furono sempre pesantemente riadattati, anche al primo allestimento (proprio perché poco disponibili alle esigenze sceniche) sia dai compositori che per i capricci degli stessi cantati.Meropesegue senza eccezione simile sorte e a Domenico Lalli, quasi più impresario che letterato, verrà affidato il radicale adattamento per il nuovo allestimento.

Il dramma racconta di Merope, regina di Messenia, cui tempo addietro fu privata di trono e famiglia a causa di Polifonte, ora nuovo tiranno del paese. Il ritorno del figlio della sventurata regina, Epitide, creduto scomparso e nel frattempo fattosi uomo, permetterà a Merope di riconquistare il trono e di condannare Polifonte. Questo il semplice intreccio su cui Zeno lavora per disegnare caratteri, più che raccontare vicende. Così Epitide, giunto sotto il falso nome di Cleone, è lacerato fra la volontà di spodestare Polifonte e la convinzione di ritenere ingiustamente la madre colpevole della morte del padre e del fratello. Merope da parte sua teme che lo straniero (il figlio non riconosciuto) le sia ostile tanto da crederlo l’assassino della sua famiglia: parimenti rimane incapace di sfuggire l’oppressione di Polifonte. E pure inerte appare Trasimene, funzionario politico che, pur legato alla regina, preferisce fare il doppio gioco per timore del tiranno. L’opera si chiude con un inatteso colpo di scena, che trasforma il momento più drammatico e tetro della tragedia (Polifonte che ordina di far morire Merope per agonia legata al presunto cadavere del figlio) in un finale lieto con buoni premiati e cattivi puniti.

La musica di Giacomelli, che concentra, come d’uso, il suo interesse nelle arie, offre con i due recitativi accompagnati di Merope (uno di sdegno, I,11, e l’altro di dolore, II,11) i migliori momenti d’introspezione drammatica di tutta l’opera. La musica in genere si sovrappone al testo col preciso intento di cogliere aspetti più intimi del personaggio, più che ambientare situazioni. In questo senso interessante è il sapiente utilizzo della tripartizione delle arie (a,b,a) per proporre doppiezze o contraddizioni: la sezioneaè ciò che appare,bil sentimento vero (ad esempio le arie di Trasimede e Polifonte, I,4 e I,5). Il coro, diversamente da quanto capita in questi anni, non è ridotto al celebrativo ‘tutti’ del finale, ma quale elemento imprescindibile di più momenti dell’opera diventa personaggio esso stesso, necessario a valorizzare situazioni eroiche o di massa, spesso accompagnato da trombe e corni obbligati.La Meroperimane tuttavia celebre per un’aria cantata da Epitide, “Quell’usignolo che innamora†(II,4); scritta per Farinelli, la tradizione vuole che questi l’abbia poi cantata instancabilmente tutte le sere per i venticinque anni in cui fu al servizio del re di Spagna Filippo (e poi al successore Ferdinando). Sia pure leggenda, certo è che di quest’aria possediamo le impressionanti variazioni che Farinelli soleva eseguire: un modello fenomenale di tecnica vocale settecentesca, dove ogni frase è variata e addirittura ogni singola fermata prevede cadenza (ben sette in tutta l’aria, fino a dodici misure di vocalizzi ciascuna).
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi


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