Il 5 marzo 1868, alla Scala di Milano, andava in scena il
Mefistofeledi Arrigo Boito: vivissima era l’attesa per l’opera di questo esordiente, letterato e musicista di ventisei anni, padovano, ma punta di diamante dell’intellettualismo scapigliato della capitale lombarda, e già molto conosciuto per le sue radicali posizioni progressiste, wagneriane, come si diceva allora, per i nuovi ideali estetici proclamati nella sua attività di critico musicale e di poeta («sogno un’Arte eterea/ che forse in cielo ha norma,/ franca dai rudi vincoli/ del metro e della forma,/ piena dell’Ideale...» recitava la programmatica sua lirica
Dualismo), in polemica contrapposizione con il teatro di Verdi, che in un offensivo inno del 1863 Boito aveva indicato come responsabile di aver «bruttato l’altare dell’arte italiana». Nell’entusiasmo per le tematiche della cultura germanica, care alla scapigliatura fino a Catalani, ai giovani Mascagni e Puccini, quale testo meglio del
Faustpoteva servire alla realizzazione dell’ambizioso progetto di rinnovamento dell’opera italiana? E, naturalmente, non solo la vicenda amorosa di Margherita, già cantata sulle scene da Charles Gounod, ma tutto il poema, con i suoi episodi di impegno politico, filosofico, religioso, in cui si sarebbero evidenziate le aspirazioni al nuovo del giovane compositore che, secondo l’esempio wagneriano, si era da solo preparato il complesso libretto. Ma, alla ‘prima’, il
Mefistofeleebbe un insuccesso clamoroso, decretato da un pubblico costretto a stare a teatro per quasi sei ore; di qui i tagli, i rifacimenti e infine la riabilitazione dell’opera nella ‘wagneriana’ Bologna nel 1875. Perduta la musica della prima versione, possiamo supporre che a turbare il pubblico milanese fosse stata non soltanto l’eccessiva lunghezza dell’opera, quanto l’inconsueto impegno ideologico di alcuni episodi, a cominciare da quel ‘Prologo in teatro’, che presentava una discussione sul significato della figura di Faust tra Critico, Spettatore e Autore; la scena del Palazzo imperiale, desunta dal
Secondo Faust, un tuffo nel Medioevo intrecciato di problemi politici e monetari, con Mefistofele ingannevole ministro delle finanze; nonché l’aspetto più germanicamente sinfonico: l’intermezzo (con tanto di programma) descrivente ‘La Battaglia’ tra Chiesa e Imperatore. Il
Mefistofeleattuale fa tesoro delle critiche ricevute a Milano; Boito compie un radicale intervento sul suo lavoro che – sopprimendo gli episodi ricordati, sfoltendo centinaia di versi, rifacendo intere scene – ne oblitera ampiamente l’ambizione culturalistica, e lo trasforma quasi, ancora una volta, in un dramma d’amore, in cui la figura di Margherita torna ad assumere un rilievo centrale, tant’è vero che a lei vengono affidati due nuovi pezzi nella scena del carcere: la toccante aria “Spunta l’aurora pallida†e il duettino “Lontano, lontanoâ€, recuperato dalla giovanile opera
Ero e Leandro. Così, il
Mefistofeleviene ad assumere un taglio più tranquillamente in sintonia con il gusto coevo, anche se non pochi episodi e alcune soluzioni originali meritano ancora attenzione e apprezzamento: ma più sul piano dell’invenzione musicale che su quello drammaturgico, in cui un alto artigianato letterario e un nobile impegno intellettuale non sono sufficienti a creare un teatro nuovo per l’Italia post-unitaria, ma solo a documentarne le aspirazioni alquanto velleitarie e retoriche. Alle spalle del dotto musicista stanno, assai più che i maestri del nostro teatro lirico, i compositori d’oltralpe: Gluck e la sua ricerca sul recitativo, Mendelssohn e il fantastico, anche Beethoven (l’incipit dell’aria di Faust al primo atto “Dai campi, dai prati†è una citazione esplicita della
Sonata ‘a Kreutzer’), mentre nelle fanfare di ottoni del ‘Prologo in cielo’ si avverte l’eco delle eroiche sonorità wagneriane. La tendenza a dilatare le arie in scene ampiamente articolate (Verdi ha appena scritto
Don Carlos, e l’
Otelloè ancora da venire) è la soluzione formale più vistosa, anche se non mancano altri tratti di novità più sottili o episodici, come l’elegante giuoco di sovrapposizione di ritmi diversi, ancora nel prologo, quando cantano insieme cherubini e penitenti «salmodianti in modo antico»; o la grande scena di Elena, nel cosiddetto sabba classico, in stile arioso, con il recupero dell’esametro nella poesia italiana, prima delle
Odi barbaredel Carducci. Tutti questi elementi, che documentano un’informazione non provinciale e una sicura professionalità , sono innestati su una autentica vena sentimentale, su una cantabilità quasi da romanza da salotto: il risultato non è certo una rivelazione assoluta; eppure, antologicamente, questi episodi svelano il carisma della bellezza senza aggettivi. Dove invece si registra il massimo divario tra intenzioni poetiche e concrete realizzazioni musicali è nel personaggio di Mefistofele, che sostituisce programmaticamente Faust nel ruolo di protagonista. Secondo l’interpretazione enunciata da Boito nel soppresso ‘Prologo in teatro’, avrebbe dovuto essere «l’incarnazione del
Noeterno al Vero, al Bello e al Buono», ma anche «il dubbio che genera la scienza, il male che genera il bene», ma la riduzione librettistica lo risolve in un ritratto che perde ogni tocco di grandioso, per oscillare fra il grottesco-sarcastico e il francamente ridicolo. Mefistofele si presenta come un normale malvagio, che non ha niente di sublime o diabolico, e appare piuttosto il prototipo dei futuri Barnaba de
La Giocondae Jago dell’
Otello, dei quali Boito scriverà i libretti: ad esempio, un momento che vorrebbe essere terrificante, la cosiddetta ‘Ballata del fischio’ con l’inizio-proclama al negativo “Son lo spirito che negaâ€, si risolve in una scherzosa
chanson à boireintonata con spirito goliardico, un po’ come la ‘Ballata della pulce’ del dramma goethiano; e certamente non ha con sé alcun fascino perverso (che il testo dovrebbe suggerire) il finale del primo atto «Fin da stanotte/ fra l’orgie ghiotte». E decisamente ridicolo appare Mefistofele quando intona l’altra ballata filosofica sul «mondo vuoto e tondo». Questo autentico incidente espressivo conferma, se occorre, che la più autentica vena di Boito, al di là dei propositi progressisti e intellettuali, è da ricercare nell’ispirazione lirica che si espande nei canti di Margherita e di Faust, non a caso voci di soprano e tenore, secondo una consolidata tipologia del melodramma ottocentesco.
L’opera si apre con un luminoso ‘Prologo in cielo’ (ampi squarci corali e sinfonici), in cui Mefistofele, nel pungente recitativo “Ave Signor, perdonaâ€, sfida il Creatore, ripromettendosi di indurre in tentazione il vecchio Faust. Seguono quattro atti e un epilogo. Nel primo atto, ‘La domenica di Pasqua’ a Francoforte, Faust incontra Mefistofele e suggella il patto che gli renderà la gioventù, consentendogli una serie di nuove esperienze umane e spirituali: da notare i ritmi di danza durante la festa popolare e le scene d’insieme, in cui Boito vuol trasferire i modelli delgrand-opérafrancese consolidati da Meyerbeer, ritenuto uno dei grandi del teatro del suo tempo. Il secondo atto vede l’incontro di Faust con Margherita in giardino, mentre Mefistofele cerca di sedurre la compiacente vicina Marta (un nobile duetto d’amore, “Dimmi se credi, Enricoâ€, che sfocia in un lindo quartettino); nella seconda parte si schiude il sabba romantico, un quadro infernale ancora nell’ottica delgrand-opéra, che può a tratti indurre al sorriso, con le sue danze brillanti che sembrano preannunciare – un po’ come la ‘Danza delle ore’ dellaGioconda -il futuro ballettoExcelsiordi Romualdo Marenco; qui Mefistofele intona la già ricordata aria “Ecco il mondoâ€. La prima parte del terzo atto si svolge nel carcere ove Margherita è imprigionata per aver ucciso la madre e il figlio (la perla dell’opera è la nenia della fanciulla delirante “L’altra notte in fondo al mareâ€); di grande commozione è anche il nuovo finale, con l’aria “Spunta l’aurora pallida†e la ripresa del coro angelico del prologo, in cui Margherita rifiuta di fuggire con l’amante e spira dicendo «Enrico, mi fai ribrezzo», come nel testo goethiano. Nel quarto atto, simmetricamente al secondo, segue la notte del sabba classico, in cui Faust incontra e ama Elena, celebrando l’emblematica congiunzione dello spirito classico con lo spirito romantico. L’Epilogo presenta Faust, ritornato ancora una volta vecchio, che sta edificando un nuovo mondo e, affascinato dall’opera che sta compiendo (bellissima l’aria “Giunto sul passo estremoâ€), si lascia indurre a dire all’attimo fuggente «Arrestati, sei bello». Mefistofele ha vinto la scommessa; ma una penitente (Margherita) intercede per Faust presso Dio, e l’anima del novello Ulisse viene salvata, mentre risuonano i canti delle schiere angeliche che avevano aperto l’opera.
Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi